06 luglio 2025

Aspetto

Aspettare.
Si pensa che questo verbo sia strettamente legato al tempo, e invece è legato ad altro.
Etimologicamente "aspettare" significa guardare intensamente e con attenzione nella direzione da cui ci aspettiamo che arrivi qualcosa o qualcuno.
Quando aspettiamo, guardiamo in una direzione nell'attesa - spasmodica o paziente - che arrivi ciò che attendiamo.
Talvolta ci sentiamo come Giovanni Drogo, il sottotenente protagonista del capolavoro di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, che spende la propria vita nella Fortezza Bastiani aspettando lo scontro con i Tartari che potrebbe dare un senso alla propria vita.
Altre volte ci sentiamo come Giacomo Leopardi che lascia spazio all'immaginazione e aspettando, ovvero, guardando - senza realmente vedere - oltre la siepe, naufraga dolcemente, fino ad annullarsi, nel mare dell'infinito.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Sono sul monte Tabor, accanto al poeta e mi concentro su ciò che non vedo.
Ciò che non vedo è ciò che non ho.
Non avere provoca, contestualmente, desiderio e sofferenza
Desiderio e sofferenza, quindi, sono intimamente connessi.

Aspettare, cioè continuare a guardare fissamente nella direzione da cui aspetto che arrivi ciò che potrebbe placarli, significa, però, che  - forse - ho fiducia nel fatto che prima o poi arriverà,
Potrei muovermi, andare nella direzione verso cui guardo, ma so che si tratta di un viaggio che richiede un equipaggiamento importante e quindi, prima di preparare i bagagli, studio con attenzione l'itinerario sulla mappa.
E aspetto.
Aspetto che passi questo lungo periodo di felicità coatta, generalizzata, esibita.
Che ferite - antiche e recenti - si rimarginino.
Aspetto di trovare un equilibrio e di riuscire a dare un senso al mondo.
Di dare un senso a me stesso nel mondo.
Di riuscire ad accettare che la felicità di qualcuno non può e non deve minare la felicità altrui.
Aspetto di capire che le persone non si identificano solo con le loro azioni.
Aspetto l'alba, cercando di godermi la notte.

Carmen Consoli, Guarda l'alba

29 giugno 2025

Camicia bianca

Il passo incerto. Il sorriso timido.
Entrano in una stanza calda, dove due ventilatori cercano inutilmente di dare un po' di sollievo, dove arrivano i rumori della strada, le urla dei bambini della scuola dell'infanzia vicina, il frinire delle cicale.
Solitamente indossano camicie bianche: è il loro modo - credo - per far capire che ci tengono a questo momento, che danno il giusto valore all'esame che stanno affrontando, il primo per molti di loro che nel 2020 hanno frequentato gli ultimi mesi della terza media dalla loro cameretta.
Sono i ragazzi che stanno affrontando l'Esame di Stato.
E poi c'è la commissione.
Sette sconosciuti, abituati a lavorare singolarmente, che per qualche settimana si trovano costretti a condividere decisioni, interrogazioni e valutazioni. Ogni tanto - soprattutto nei primi giorni - si prova la stessa sensazione che si percepisce quando si entra in ascensore: sorrisi imbarazzati, silenzi da riempire, frasi di circostanza. Poi, quando ci si abitua alla presenza degli altri, si è ormai arrivati al piano. E quindi sui social proliferano foto di pacchi con imbarazzanti sigilli di ceralacca e di gruppi di persone stanche e sorridenti che si sono ripromesse di vedersi per andare a mangiare una pizza. Cosa che nella maggior parte delle volte non succede.

La firma che ne attesta la presenza, uno sguardo alla LIM su cui c'è il materiale da cui partire per l'orale e si parte. 
Mentre raccoglie le idee, guardo con curiosità l'aula in cui troneggia la lavagna: l'ardesia e il gesso sono scomparsi, ma l'elettronica contrasta con le cartine geografiche appese ai muri da chissà quanto, con qualche crepa, con gli infissi di legno, imponenti e un po' scrostati. C'è il silenzio che precede ogni momento importante, interrotto dal rumore dei ventagli, dai maestra maestraaa che arrivano da fuori e dalla sirena di un'ambulanza in lontananza, che ci avvisano che la vita fuori continua anche se siamo in questa bolla.
Rifletto sul fatto che li chiamiamo candidati, come coloro che nell'antica Roma indossavano vesti bianche, candide, appunto, per raccogliere i voti in occasione delle elezioni. Sorrido pensando al fatto che, tolte le elezioni, tutto è rimasto uguale.

Con la voce bassa e un po' insicura inizia a parlare di ciò che sa. 
Si muove - talvolta in maniera impacciata, talvolta no - tra argomenti che lo hanno fatto annoiare, talvolta piangere, raramente entusiasmare: ha passato ore sui libri, chiedendosi quando gli sarà ancora utile nella vita ricordarsi della vecchia imbellettata di Pirandello, delle derivate, di Dulce et decorum est o dei simboli che sono presenti in Guernica.
Chissà quante volte ha pensato che la scuola no, non dovrebbe trattare solo di eventi passati, ma anche e soprattutto di quello che sta succedendo: perché è in atto il genocidio in Palestina? Perché tante donne vengono uccise? Perché il mondo è schiavo di Trump? Come fare a risolvere il riscaldamento globale che è un problema soprattutto per chi non ha l'agio di avere l'aria condizionata a casa e magari lavora sotto il sole per ore?
Non è il momento di confrontarsi su questo - anche se sarebbe sempre utile ricordare che il compito, utopico ma non irrealizzabile, della scuola è dare strumenti universali per interpretare la realtà - e lo ammiro mentre passa da un argomento all'altro, mentre cita nomi, date e nozioni che forse un tempo avevo anche io ma che poi ho rimosso.
Vedo una giovane donna o un giovane uomo che ha davanti a sé ancora tutte le possibilità, può scegliere se percorrere strade note o se tracciare sentieri nuovi: vorrei solo dire di non aver paura di sbagliare, che si è sempre in tempo per tornare indietro, ma mi limito a stringergli la mano perché i tempi sono stretti e bisogna andare altro.

E poi capita che di incontrarli nuovamente alla fine della mattinata quando, dismesso l'abito da esame, hanno indossato nuovamente i loro vestiti: ne percepisco il senso di leggerezza e di liberazione, ne vedo il sorriso e viene da sorridere anche a me.

 Jackson Browne, The road

22 giugno 2025

Educare o imporre?

Era prevedibile, quasi scontato. E infatti è successo.

È dei giorni scorsi la circolare con cui il Ministro dell'Istruzione invita a vietare i cellulari anche nelle scuole secondarie di secondo grado, alla luce di studi che dimostrano quanto sia dannosa la dipendenza da smartphone negli adolescenti e quanto possa ledere alle loro capacità cognitive. Fatte salve alcune eccezioni, quindi, studentesse e studenti dovranno rinunciare ai propri dispositivi per tutto il tempo scuola.
Se da un lato il provvedimento ha sicuramente ragione di esistere, dall'altro non può non suscitare domande a cui - beninteso - è difficile dare una risposta certa e universalmente valida.

In primo luogo - e qui rubo una frase di una fra i miei pupilli con cui qualche giorno fa si affrontava l'argomento - dovremmo chiederci quale sia il ruolo della scuola: educare o imporre? Etimologicamente, quindi, la scuola deve tirare fuori ciò che nelle ragazze e nei ragazzi c'è già o dare delle regole a cui obbedire ciecamente, senza abituare ad esercitare lo spirito critico?
Certo, ogni tanto è forte la tentazione di dettare delle regole e, di fronte alle spiegazioni, usare il latino come fa Don Abbondio con Renzo; alcune volte, forse, è anche indispensabile, quando si tratta di norme rispetto alle quali non può e non deve esserci discussione.
Ci sono, però, casi - e questo è uno di quelli - in cui il confronto è fondamentale: educare ad un uso consapevole della tecnologia, insegnare a guardarsi fisicamente attorno e a confrontarsi con chi ha una consistenza reale, far vedere a ragazze e ragazzi che ci sono altri modi per cercare informazioni è sicuramente più faticoso e meno immediato rispetto a vietare l'uso dello strumento, ci espone a confronti serrati, ma permette poi di arrivare a soluzioni più o meno condivise che suonano  - comunque - più accettabili rispetto ad un generico non si fa.
Sul discorso della distrazione ci sarebbe una lunghissima parentesi da aprire: quando andavo a scuola non avevo ovviamente lo smartphone ma questo non mi impediva di distrarmi, leggendo le battute sulla Smemoranda, guardando fuori dalla finestra, chiacchierando con compagni vicini e lontani. La distrazione, il desiderio di essere altrove è proprio dell'età e solo in parte è legato al discorso della tecnologia.
Non credo, inoltre, che questa decisione possa risolvere i problemi di dipendenza dal cellulare: concluse le 5 o 6 ore di scuola, gli smartphone si riaccenderanno e - in mancanza di educazione digitale - continueranno ad essere usati allo stesso modo in cui venivano utilizzati prima del divieto. Sembra, quindi, solo un modo per allontanare - almeno formalmente - il problema dall'istituzione scolastica che, in questo modo, si pulisce la coscienza.

E poi mi chiedo un'altra cosa: agli adulti è tutto concesso? È concesso usare male i social media per diffondere odio e farsi megafono di fake news? È concesso passare del tempo sul posto di lavoro a fare acquisti o a scegliere la meta per le prossime vacanze? Il problema sono davvero solo gli adolescenti?
Qualora questo provvedimento dovesse effettivamente prendere corpo, credo che sarei il primo - indipendentemente da quanto poi verrà stabilito a livello centrale - a privarmi del cellulare durante l'intero orario di lavoro, non fosse altro che per una questione di equità e di coerenza rispetto a chi di questo strumento viene privato.
Resta il fatto che mi sembra un modo furbo di mettere la polvere sotto il tappeto per dare la parvenza di una stanza perfettamente pulita.




15 giugno 2025

A favore di camera

È uno dei temi caldi dell'inizio estate.
Insieme ai tre-mesi-di-ferie, quando la scuola è finita non si parla di altro, ovvero dei compiti delle vacanze: quando i due temi si fondono, poi, creano un mostro bicefalo spaventoso come una cartella di Equitalia.
"Eh, ma i professori che adesso vanno in vacanza non hanno rispetto dei poveri ragazzi che passeranno tre mesi a studiare" è il tenore dei discorsi che mi è capitato di sentire: ho mantenuto il mio aplomb, mi sono morso la lingua, mi sono detto che la violenza non è mai la soluzione, ho finto di essere sordo, sorridendo carino e coccoloso e sono andato oltre.
Sulla questione delle vacanze dei docenti, avevo già scritto un post, diversi tre-mesi-di-ferie fa la cui sintesi è: fermo restando che tutte queste ferie io non le ho mai viste ed esistono solo nei post su Facebook di Fragolina58 e sulle chat dei genitori, se il mio lavoro è organizzato in questo modo non credo di essere tenuto a giustificarmi con nessuno.
Riguardo ai compiti vorrei fare una riflessione un po' più approfondita.

Correva l'anno 2016 quando, dopo essermi confrontato con le mie studentesse e i miei studenti di allora, scrissi loro una mail in cui, alla lista dei libri da leggere, seguivano queste parole:

La nostra chiacchierata dell’8 giugno mi ha portato a riflettere anche sul ruolo dell’insegnante: qual è il mio compito? Illustrarvi nozioni scritte sui libri o formarvi a 360 gradi? Ovviamente, entrambe le cose.

 

Non credo che invitarvi a ballare o dire ad una persona che la amate sia un compito da dare per l’estate perché, come si diceva ieri, sono consigli che valgono per tutte le stagioni, a maggior ragione di inverno, quando tutto (la scuola, il clima, le giornate brevi) sembra tramare contro la nostra felicità; mi sembra giusto, tuttavia, condividere con voi qualche spunto di riflessione a cui dedicare in estate quel tempo che non avete durante l’inverno.

 

Ci sono alcuni diritti che non dobbiamo dimenticare:

  • il diritto alla noia: non è un male annoiarsi; la noia può spingerci a vagare con la mente in luoghi lontani dove non arriveremo mai se avremo sempre qualcosa da fare
  • il diritto all’assenza: il nostro presenzialismo 24 ore su 24 su social network, whatsapp e compagnia bella non deve essere una schiavitù. La sensazione di non esistenza che possiamo provare se rimaniamo off line per un po’ è comprensibile, ma ricordiamo sempre di curare i nostri rapporti con l’unica persona che non ci abbandona mai: noi stessi.
  • il diritto al silenzio: non dobbiamo sempre per forza avere qualcosa da dire su qualunque argomento. Può esserci anche qualcosa che non conosciamo (e che, legittimamente, non ci interessa di conoscere) e su cui non abbiamo un parere: non parlare non vuol dire per forza non esserci o essere ignavi.

 

Dovremmo, come si diceva ieri, imparare a goderci i momenti che viviamo, senza aspettare il futuro che verrà: questo non vuol dire non avere aspirazioni o non lottare per raggiungerle, ma significa semplicemente che il tempo in cui noi viviamo è il presente, né il passato né il futuro, ed è di questo presente che dobbiamo avere cura. Se sono ad un concerto, devo perdermi con la mente e con il corpo nella musica che ascolto; se sto per mangiare una buonissima pizza, preparo i miei sensi ad assaporarla; se vivo una bella esperienza, cerco di memorizzarne tutti i particolari per poi poterli condividere di persona con i miei amici, parlando con loro, guardandoli negli occhi. Se ho già condiviso tutto su facebook, di cosa parlo con i miei amici? Di poco e nulla e perciò passo  le mie serate con loro a guardare ciò che altri stanno condividendo in quel momento e così via…

Ultima sfida: provare a stare un giorno, uno solo, senza smartphone e vedere cosa succede. 

Se qualcuno ci riesce, me lo dica: voglio sapere cosa avete provato.

Vi auguro una buona estate.

Lg


Da cosa era nato tutto questo? Da una delle consuete liste dei compiti per le vacanze che circolano sui social e che anche quest'anno hanno avuto la loro eco grazie al reel di un influencer molto noto che ha suggerito a studentesse e studenti di alzarsi tardi, fare movimento, leggere un libro che rispecchia i loro interessi, uscire con gli amici. A chi grida al miracolo e alla genialità, suggerisco di fare una rapida ricerca su Google: senza scorrere troppo le pagine, si nota che queste liste alternative esistono almeno dal 2014.

È tutto legittimo e anche giusto, per carità, ma possiamo dire una volta per tutte che questi sono consigli, auguri dati a favore di camera ma non compiti? Che farli passare per compiti è disorientante e mette in cattiva luce tutti coloro che invece assegnano libri da leggere o esercizi da fare, soprattutto agli occhi di chi non ha gli strumenti per discernere?

Essere onesti - e non dire e fare cose solo per il gusto di apparire diversi dalla massa - forse è più importante, anche se può essere meno redditizio. Oltretutto, si possono dare questi consigli senza opporli ad una minima lista tradizionale di compiti da fare (e lo si può fare - surprise surprise - anche senza uno smartphone che ci sta facendo un video).
E sì, nel 2016 i ragazzi usavano ancora Facebook.

Daniele Silvestri, Argentovivo






08 giugno 2025

Tutto qui?

I primi giorni di giugno sono una lista di cose da fare.
Hai corretto gli ultimi compiti, lottando con la penna rossa che, ovviamente, ha esalato l'ultimo respiro quando te ne mancavano solo due; tu, però, imperterrito vai avanti ugualmente, convinto che le ultime correzioni potranno essere comunque lette dagli studenti, anche se sono praticamente solo impresse sul foglio perché di inchiostro non ce n'è più. Useranno i polpastrelli, come se fossero scritti in Braille.
Hai interrogato gli ultimi eroi rimasti, quelli che vogliono evitare di passare un'estate sui libri: alcune volte li guardi con ammirazione per la tenacia, altre volte li guardi con tenerezza per l'assoluta inconsapevolezza, simile a quella di chi, a tavola, dopo aver mangiato primo, secondo, contorno, dolce, posate e aver anche assaggiato un commensale, chiede il caffè ma rigorosamente senza zucchero perché vuole tenersi in forma.
Hai formulato le tue proposte di voto, per citare Philip Roth, "con la collera del Dio del Vecchio Testamento e la misericordia del Nuovo"; praticamente hai fatto una tale opera di equilibrismo che aspetti solo di iniziare una tournée mondiale con Cirque du Soleil. Hai tenuto conto della media aritmetica ma senza tenerne conto perché non siamo burocrati ma un po' sì; hai messo da parte ogni considerazione personale dettata da simpatie e antipatie (perché, diciamolo una volta per tutte, ogni tanto ci sono alunne e alunni nei confronti dei quali proviamo la stessa attrazione che Dracula prova per i paletti di frassino); hai valutato i miglioramenti, l'originalità delle scuse per sottrarsi all'interrogazione, i biechi e malriusciti tentativi di corruzione. Alla fine sei riuscito, forse, a far quadrare i conti, a valutare non dico in modo giusto, ma almeno rispondente all'idea - riassunta in un numero - che tu hai di ciascuno di loro; nel dubbio, una volta formulati i giudizi - veri capolavori dell'arte dell'uso dell'avverbio per giustificare l'ingiustificabile e per dare l'impressione di non aver scritto sempre la stessa cosa - chiudi il registro elettronico e non lo guardi più fino al giorno dello scrutinio per evitare ripensamenti.
Poi arriva il momento tragico: la stesura dei programmi.

Quelli bravi scrivono i programmi finali man mano che fanno lezione.
Quelli furbi riciclano gli stessi programmi da anni, cambiando - quando se lo ricordano - solo l'anno scolastico.
Quelli cialtroni si riducono all'ultimo istante e poi sono costretti a scrivere tutto di corsa con gli occhi gonfi di lacrime di disperazione.
Serve, per caso, dire qual è la categoria a cui appartengo?

Con dieci libri aperti sulla scrivania, ieri provavo a mettere ordine in ciò che ho fatto nelle mie classi negli ultimi nove mesi, provando a ricordarmi quali testi avevo letto o di quali autori avevo parlato cercando di trasmettere la mia passione agli studenti che, per tutta risposta, mi guardavano con l'entusiasmo di una cassiera dell'Esselunga che, al momento del pagamento, attende che ti ricordi il PIN del bancomat.
Questa poesia non l'ho letta perché - in fondo - non l'ho capita mai bene neanche io, a quell'autore ho rinunciato perché lo trovo borioso, inutile, sopravvalutato.

Una volta fatta questa attenta selezione, guardo il frutto del lavoro di quest'anno riassunto in un file word e mi chiedo se davvero quelle righe contengono tutto ciò che ho fatto. Davvero è tutto qui?
Penso a ciò che avrei voluto fare, ai bei programmi che avevo in mente, ai libri che avrei voluto far leggere, all'insegnante che avrei voluto essere, a tutto ciò che avrei voluto trasmettere alle mie alunne e ai miei alunni.
Come quando stai iniziando qualcosa di nuovo, stai andando ad abitare in un nuova casa, stai iniziando una nuova relazione, stai per scrivere il tuo nome su un quaderno ancora intatto: ti riprometti che questa volta sarà diverso, che non commetterai i soliti errori, che sarai ordinato, preciso, disponibile ma rigoroso.
Questi sono i bei sogni, la famiglia del Mulino Bianco, il pranzo della domenica, la scuola delle fiction di Rai1. 

Poi arriva la realtà, ti travolge e tu non puoi far altro che cercare, se non di dominarla, almeno di provare a darle ordine. E la realtà arriva sotto tante forme: magari ci sono volte in cui è più importante parlare di altro in classe piuttosto che di enjambement e di participi perfetti; ci sono volte in cui non sei in vena e fai una lezione confusa (e poco felice); ci sono volte in cui ti rendi conto che ciò che è chiarissimo per te non lo è affatto per chi hai di fronte e allora ti tocca fare il funambolo per trovare mille modi diversi per spiegare la stessa cosa  che - probabilmente - alla fine impareranno a memoria senza capirci nulla.

E poi c'è tutto quello che nei programmi non si può scrivere perché non ha una consistenza reale, quantificabile e verificabile: c'è tutto quello che hai cercato di trasmettere attraverso lo scambio di opinioni, gli sguardi o i silenzi, c'è una visione del mondo che hai provato a condividere nel tentativo di fornire almeno qualche strumento, se non per comprendere, almeno per affrontare il reale che è mutevole e sempre più complesso.

C'è un'altra cosa che nei programmi non ha spazio: tutto quello che ho imparato io.
Ho scoperto che si dice trénta (e la cosa mi fa soffrire), ho capito cos'è un beef, ho ammirato in silenzio la forza di chi, al di là delle apparenze, affronta con dignità un passato doloroso e un presente difficile.
Ho imparato a farmi sorprendere dalle insospettabili capacità, dalla profondità, dalle storie personali delle giovani donne e dei giovani uomini che incrocio nel mio cammino.

Questo non può essere registrato e rendicontato da nessuna parte, sfugge alla burocrazia e agli adempimenti di fine anno. E forse, proprio per questo, è la parte più preziosa. O sicuramente quella che resiste al tempo.

Gazzelle, Tutto qui

01 giugno 2025

I want to be what you saw in me

Voglio essere ciò che hai visto in me.
(Faccio la traduzione per genitore1 e genitore2 che a scuola hanno studiato francese e arrancano con la lingua della perfida Albione).
È questa la scritta che accompagna l'ultima opera - in ordine cronologico - di Banksy e che è comparsa tre giorni fa sui muri di una città, forse Marsiglia: sono stati sufficienti un paletto e un muro su cui il paletto proietta la sua ombra per colpire la fantasia dell'artista che ha trasformato quell'ombra in un faro, accompagnato dalla scritta "I want to be what you saw in me".
E la cosa ha risuonato potente in me: cosa voleva dire l'artista? Cosa vuol dire questo per me?

La luce che fa sì che l'ombra si stagli su un muro è lo sguardo degli altri: senza questo sguardo, non potrebbe emergere ciò che noi abbiamo dentro.
Dall'immagine che gli occhi altrui fanno emergere di noi, siamo inevitabilmente condizionati.
Siamo un palo, un anonimo palo grigio, uguale a tanti altri fino a quando il sole non ci illumina, dando forma ad una parte di noi che, altrimenti, resterebbe invisibile.
Gli altri vedono in noi qualcosa, ci modellano con il loro sguardo e quella forma che assumiamo diventa parte di noi: abbiamo la tentazione di aderirvi completamente per smettere di pensare di essere solo pali, per assumere un'identità e non deludere le aspettative di chi ci ha reso altro, oltre che un pezzo di ferro che interessa solo ai cani per fare pipì.
Siamo grati a chi ha tirato fuori un lato di noi che non supponevamo di avere. Quanto ci fa sentire validi sapere che qualcuno vede in noi - al posto o in aggiunta di ciò che siamo - un faro, punto di riferimento fondamentale per guidare chi si avventura nella notte?

La luce, però, può cambiare angolazione, intensità, può addirittura venir meno: in ognuno di questi casi, cambia l'immagine che il palo proietta sul muro. 
E non è detto che questa nuova immagine sia peggiore della precedente: è altro, siamo sempre noi ma visti con occhi diversi, sotto un'altra luce, appunto.
Ma quindi, chi siamo noi? Siamo solo la proiezione dello sguardo altrui? Chi siamo? Quanti siamo?
Possiamo fare a meno della nostra ombra?

La mente non può non andare qui

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!


Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Potremmo non curare la nostra ombra e concentrarci su ciò che siamo (e non sull’immagine che gli altri hanno di noi) ma cosa resterebbe di noi? Un palo, uguale a tutti gli altri.

Carmen Consoli, Nell'apparenza

25 maggio 2025

V(u)oto

"A me è maggio che mi rovina".
La poesia - splendida - di Patrizia Cavalli, per me, potrebbe concludersi qui.
Incorniciati tra due feste tanto belle quanto ormai tristemente utopiche - quella dei lavoratori e quella della repubblica - i giorni di maggio scorrono inesorabili, pesanti come macigni e si portano dietro la stanchezza dei mesi di scuola e la frustrazione per quello che si sarebbe voluto fare e non si è fatto, per i risultati che si sarebbero voluti raggiungere e invece no.
Si rincorrono valutazioni, interrogazioni, recuperi, speranze, sensazioni di fallimento, sospiri di sollievo: si ha la sensazione perenne di annaspare, di non sapere a cosa dare priorità e si perde di vista tutto il resto.
E tutto questo riguarda docenti, studenti e famiglie. Tutti su una stessa zattera, ancora lontana dalla costa.
Ed è proprio quando sembra di non potersi fermare che è giusto farlo.
E io l'ho fatto l'altro giorno con i miei pupilli.

È naturale: quando si parla di scuola con i ragazzi e lo si fa a cuore aperto, bisogna essere pronti a ricevere bordate non indifferenti che però fanno riflettere.
La valutazione, quella valutazione da cui noi docenti siamo ossessionati per ragioni burocratiche, diventa anche la loro unica preoccupazione. E tutti i bei discorsi sul fatto che loro non sono solo quel numero, che per noi sono tanto altro crollano miseramente di fronte all'obiezione - lucidissima e inoppugnabile - che tanto poi alla fine è solo il voto che definisce il loro successo o il loro insuccesso.

Di fronte a questo, anche le raccomandazioni rispetto all'uso dell'intelligenza artificiale risultano inutili: se ciò che conta è il risultato e l'uso della tecnologia può aiutare a raggiungerlo, qual è il motivo che dovrebbe spingere ad impegnarsi e a spendersi in prima persona per ottenerlo?
La soddisfazione personale? Il proprio bagaglio culturale? Sarebbe bello fosse così, ma in realtà né l'una né l'altro sembrano avere a che fare con la scuola.
E questo vale anche ad altri livelli.
L'altro giorno - raccontavo agli studenti - ho visto una sponsorizzazione sui social che mostrava una piattaforma in grado di preparare lezioni, presentazioni e verifiche: mi sono sinceramente chiesto quale diventerebbe a quel punto il ruolo del docente: dovrebbe limitarsi ad esporre in modo convincente? E a cosa servirebbe laurearsi e percorrere le strade tortuose che conducono all'insegnamento?
E poi, perché un laureando dovrebbe scrivere di proprio pugno una tesi, passando mesi in laboratorio, in biblioteca, sui libri, mettendo alla prova la propria capacità di pensiero, di scrittura ma anche di resistenza fisica e psicologica? A questa domanda trovo solo risposte che affondano le proprie radici in questioni di tipo morale. Ma la morale non è ciò che ti garantisce un posto di lavoro.

Vedo una mano alzata.
È quella di C.
Mi dice che la scuola sottrae tempo alle sue vere e numerose passioni e che scrive su un quaderno le cose che le interessano e le approfondisce per conto suo. "Ho voglia di conoscere" dice C.: è una frase bellissima, ma capisco che questa voglia non può essere soddisfatta dalla scuola. Fa male, ma lo capisco.
L. mi dice che studia per conto suo, che legge libri, cerca, riflette, annota e di quello che studia a scuola non le resta niente. 
La mia prima reazione è di stupore, ma poi penso che io, forse, alla sua età non era molto diverso, che i pomeriggi di studio erano finalizzati al voto da prendere e che delle cose studiate allora  - e abbandonate durante il percorso universitario - non ricordo davvero più nulla perché le rimuovevo appena passata la verifica.

Certo, per consolarsi e per dare un senso a ciò che un senso sembra non averlo si potrebbe citare Skinner - non il direttore della scuola elementare di Springfield ma Burrhus Frederic, lo psicologo - e ricordare che la cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto; si può anche dire che la scuola non ha il compito di insegnare ciò che è utile a trovare un lavoro, ma non può non lasciare un profondo senso di vuoto la presa di coscienza della percezione dell'impatto del proprio lavoro da parte di chi si ha di fronte e che fa ciò che deve spesso al solo scopo di raggiungere un voto.

A me è maggio che mi rovina
e anche settembre, queste due sentinelle
dell'estate: promessa e nostalgia

A questo punto non resta che attendere settembre (o quei rari momenti - che pure càpitano - in cui ti sembra che, no, il tuo lavoro in fondo non sia così inutile).

Franco Battiato, Il vuoto

Aspetto

Aspettare. Si pensa che questo verbo sia strettamente legato al tempo, e invece è legato ad altro. Etimologicamente "aspettare" si...