21 dicembre 2025

Il fascino del limite

Ne parlavo l'altro giorno con C.
C. è indubbiamente una delle teste migliori che io abbia incontrato in questi venti anni di insegnamento: legge tanto, ha mille interessi - i più disparati - che approfondisce, accumula esperienze, costruisce futuri, ha una notevole accuratezza nello scegliere e nel porgere le parole.
C. è anche fortemente critica nei confronti di un sistema scolastico che la costringe a studiare cose che non le interessano: perché - mi dice - studiare tanta storia, tanta letteratura del passato quando c'è tutto il mondo contemporaneo che lei vorrebbe conoscere e saper interpretare?
A C. non interessa quindi della scuola e dei risultati scolastici: i voti sono numeri e la scuola è un freno alla sua voglia di conoscere. Può prendere quattro e nove nello stesso giorno, nella stessa materia e reagisce con la stessa divina indifferenza.
Superfluo parlare con lei della scuola che insegna a ragionare, perché sa già farlo - e molto bene -  da sola.
Superfluo anche spiegarle che le conoscenze scolastiche servono a costruire quel reticolato in cui inserire tutto ciò che si impara fuori da quelle mura e che è proprio al suo interno che tutto ciò che ci circonda assume un senso.
Confrontandomi con lei, mi viene in mente il concetto di limite.

Limes - il termine latino da cui deriva la parola limite - è etimologicamente connesso a limus che significa obliquo e indica una via traversa, un sentiero che fa da confine, da frontiera.
Il concetto di limite è respingente e attraente nello stesso tempo: può essere spiacevole l'idea di avere una strada da seguire, soprattutto quando ci sembra di avere praterie sconfinate solo per noi e pensiamo che andare in una direzione implichi una rinuncia a tutte le altre strade possibili.
Allo stesso tempo può essere rassicurante l'idea di percorrere strade già battute perché in questo modo ci sembra di diminuire significativamente le probabilità di perderci.

Ma c'è un altro aspetto che, secondo me, va considerato.
Se è vero, com'è vero, che il limite è ciò che distingue il noto dall'ignoto, il sé dall'altro da sé, il sì dal no, il giusto dallo sbagliato è altrettanto vero che quella strada che fa da frontiera è il punto in cui tutto converge: è la strada del possibile, è la soglia affacciandoci dalla quale vediamo tutto ciò che non pensavamo esistesse, tutto ciò a cui aspiriamo - forse proprio perché è al di là.
Percorrendo questa strada, anche restando al di qua del limite, possiamo accogliere tutto ciò che è altro e farlo diventare nostro, allargare un po' i nostri confini che talvolta ci appaiono così angusti, allentare quei nodi da cui ci sentiamo condizionati.
Restare nella strada segnata - pur provando costantemente ad allargarla, pur gettando un occhio al di là - è anche un esercizio di vita: possiamo, infatti, con coraggio infrangere i limiti imposti, proveremo una sensazione di libertà improvvisa ma in questi territori inizialmente sconosciuti troveremo o ci imporremo nuovamente dei confini da non valicare. Potremmo infrangere anche quelli, certo, ma la sensazione è che ne troveremmo altri e altri ancora. Perché l'uomo in quanto essere limitato - fosse anche solo da un punto di vista temporale - non può fuggire eternamente dal limite.

Limite è la siepe dell'Infinito di Leopardi, quella senza la quale non avrebbe mai immaginato i sovrumani silenzi e la profondissima quiete. Ma limite è anche il muro d'orto di Montale, quell'elemento invalicabile al di là del quale c'è la vita vera, il palpitare lontano di scaglie di mare.
La porta dell'Inferno di Dante (Per me si va nella città dolente) le colonne d'Ercole varcate da Ulisse, il molo che attende Eveline nell'omonimo racconto di Joyce sono tutti limiti.

Poi è suonata la campanella che ha segnato la fine dell'intervallo e della nostra conversazione: ancora una volta un confine.
Non so se sono riuscito a dare a C. una chiave di lettura utile, non so se queste parole la aiuteranno a guardare il limite con occhi diversi.
In fondo, sono convinto che il compito degli uomini non sia riuscire quanto piuttosto provare. E non posso dire di non averlo fatto, con tutti i miei limiti.

Roberto Vecchioni, Stranamore


14 dicembre 2025

2026: fuga dall'algoritmo

In principio era il T9.
Quando i cellulari avevano ancora i tasti in rilievo, gli schermi non erano touch e scrivere messaggi provocava severe tendiniti, farsi aiutare nella digitazione dalla scrittura intuitiva - quel sistema che si chiamava appunto T9 - appariva come una benedizione divina.
Certo, si rischiava di finire in situazioni imbarazzanti con messaggi totalmente travisati (e mai corretti perché ogni sms costava, tranne a Natale e in estate), c'erano rapporti che finivano per parole scritte male, ma direi che si correva volentieri il rischio: un pollice sano val bene una sfuriata.
Ora, grazie ai notevoli passi in avanti della tecnologia, quando apro la pagina di Google e inizio a cercare qualcosa, ho spesso la piacevole e calda sensazione di essere accolto da un amico che mi capisce al volo: digito tre lettere e mi propone esattamente la ricerca che avevo in mente.
Magia? Mentalismo? No, semplicemente algoritmo.

Google sa cosa vogliamo e ce lo propone, spingendoci spesso a cercare cose che non ci interessano perché ce le propone in maniera così convincente che noi non riusciamo a dire di no.
Inizio a scrivere qua e il primo risultato è quanti anni ha Valeria Marini? E non ditemi che non siete curiosi di saperlo, perché lo vedo da qui che state mentendo.
Digito chi ha e trovo notizie assolutamente indispensabili su chi ha vinto il grande fratello con tutta una retrospettiva sugli ultimi 25 anni.
Per non parlare dei risultati che ho davanti agli occhi se, volendo fare una innocente ricerca sul Portogallo, digito por.

Al di là di questi fraintendimenti, si ha davvero spesso la sensazione di una comprensione immediata dei nostri desideri da parte dei motori di ricerca, ma se da una parte questa sensazione è piacevole, del tipo oh guarda, finalmente qualcuno mi capisce senza che io parli, dall'altra la trovo piuttosto inquietante.
Se è vero, come è vero, che tutto questo ci fa risparmiare tempo e ci fa sentire quasi coccolati, non riesco a non pensare a come si sia arrivati a questi risultati: siamo degli abitudinari che agiscono sotto l'occhio vigile di un Grande fratello - quello di Orwell, non quello di Canale 5 - che prende nota di tutto quello che facciamo, leggiamo, guardiamo e pensiamo.
Anticipandoci nelle ricerche, Google ci stimola a non pensare e ad essere acritici, così come a non pensare e ad essere acritici ci spinge l'uso dell'intelligenza artificiale: potenzialmente è uno strumento tanto utile, ma mi viene da chiedermi quale sia il suo reale impatto nella nostra vita.
Certo, ci aiuta a risparmiare tempo - un bene di cui ci sentiamo sempre carenti - ma la domanda da porsi è come usiamo il tempo che ci ha fatto risparmiare l'uso della AI? E poi, siamo consapevoli di barattare parte delle nostre capacità cerebrali in cambio di una manciata di minuti che magari poi sprechiamo in altro modo? Se uso l'ascensore invece di fare le scale arrivo prima, certo, ma, a lungo andare, perdo l'uso delle gambe.
Verrebbe da citare Seneca e il suo De brevitate vitae dove il filosofo scrive Non exiguum temporis habemus, sed multum perdimus cioè non è vero che abbiamo poco tempo,  ma la verità è che ne perdiamo molto.

Alla luce di tutto questo, ho deciso che ingannerò l'algoritmo, iniziando ad assumere comportamenti che non si aspetta da me:
  • commenterò entusiasticamente i video della ministra Bernini che, rievocando anche lo spirito dei defunti, apostrofa come poveri comunisti e inutili gli studenti che la contestano per la dissennata gestione dei test nella facoltà di medicina;
  • guarderò gli highlights dell'affascinante partita Aegir-Throttur Vogar, due squadre che militano nella seconda divisione del campionato di calcio islandese;
  • leggerò avidamente gli articoli di La verità e Il giornale;
  • verificherò l'esistenza di un fan club di Mario Giordano per potermi iscrivere al più presto;
  • cercherò informazioni sul tour di Povia e mi accaparrerò i biglietti per assistere in prima fila ai suoi concerti
Non dico di tornare a fare le ricerche sull'enciclopedia - per quanto questo eserciti su di me un fascino retrò non indifferente - ma provare a spiazzare l'algoritmo, ad ignorarlo, a deluderne le aspettative: non potrebbe essere un buon proposito per il 2026?

Caparezza, Fugadà

30 novembre 2025

Mattone

Ci sono canzoni che ti colpiscono un martedì qualunque, intorno alle 23.45
Canzoni che non hai scritto tu perché non sapresti farlo.
Canzoni che, magari, non parlano di te, ma parlano a te.
Una di queste è "Mattone" di Angelica Bove.

Dicono che per amare serve stare bene da soli
di non accontentarsi pur di rimanere insieme da fuori

Quante volte ci facciamo condizionare da ciò che dicono gli altri, da ciò che si vede di noi da fuori? Quante volte rimandiamo il nostro stare bene per paura della solitudine?

Noi ci somigliamo come i cani coi padroni
Ma non ci capiamo come figli e genitori

È la consuetudine che fa sì che i cani somiglino ai padroni ma è anche ciò che rende simili le persone che si amano. Questa consuetudine, però, non riesce ad evitare che l'incomunicabilità che è propria di qualunque rapporto umano, anche quello più naturale, quello tra genitori e figli. 

Mi prendo un altro po'
Troppe informazioni che mi confondono

Coltivare il silenzio in un'epoca di sovraffollamento di stimoli è un atto di ribellione ma è anche ciò che ci può salvare, anche se fa paura.

Quanta pioggia ancora cadrà
Per un po' di pace in queste giornate
So che prima o poi passerà
L'ha detto il dottore che mi devo abituare
A stare male in modo normale
Come tutte le altre persone
A stare male in modo normale
Come tutti gli altri
E ritornare a vivere

Mi devo abituare a stare male in modo normale. La frase mi ha colpito, diretta come un pugno in pieno viso. Qual è il modo normale per stare male? Davvero esiste una normalità del dolore? Forse un dolore composto, che non crea disturbo agli altri, che possiamo sfogare solo quando siamo soli? E che dolore è quello che non trova una via per esprimersi? Ritornare a vivere si può, con una nuova consapevolezza che deriva proprio da quel dolore. 

Dicono che per odiare serve litigare
Servono parole dette bene
Io che mi ritrovo sempre a dire cattiverie
Fino a tre non riesco mai a contare
Perdo la pazienza come perdo le occasioni
Sono treni così lontani

Quanto è difficile litigare: è faticoso quasi quanto amare. Contare fino a tre, non farsi trascinare dalla rabbia, non perdere la pazienza richiedono uno sforzo che andrebbe riservato a poche persone, le stesse verso cui si prova amore. Altrimenti è uno spreco di energie.

Aspetto ancora un po'
Troppe direzioni possibili

Perdersi e ritrovarsi: un percorso continuo, labirintico che ci porta talvolta su strade già battute, altre volte su strade di cui non sospettavamo neppure l'esistenza. Perdersi per ritrovarsi. Magari nuovi, magari diversi da come credevamo di essere.

Dicono che porto un peso
Che per me è un mattone
Ma un mattone serve a costruire

La sofferenza è un peso, ma non è fine a se stesso: la sofferenza va accolta perché, non sempre ma spesso, è ciò che ci permette di costruire e di costruirci, anche quando intorno e dentro di noi ci sono solo macerie.

Angelica Bove, Mattone

23 novembre 2025

Non ci vuole un gene

Era un luminoso pomeriggio...
- d'aprile e i due giovani Giórgio e Pièro si incontrarono nella radura di Sherwood -  diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato.
(Tutta la mia stima a chi coglie entrambe le citazioni, segno evidente del mio bipolarismo culturale)
Era un luminoso pomeriggio di novembre quando, scrollando pigramente i social, compare davanti ai miei occhi un video.
L'ho guardato. Mi sono detto che non era possibile, che si doveva per forza trattare di un deep fake.
L'ho riguardato, ho cercato altre fonti, altre inquadrature, altre testate giornalistiche che rilanciassero la stessa notizia con lo stesso video.
Tutto mi confermava che quelle parole che avevo udito non erano state oggetto di una manipolazione e non erano neppure state pensate da una mente diabolica che aveva come fine mettere in cattiva luce il governo con un grande complotto: era tutto vero. 
Davvero c'è stato un ministro della Repubblica che, parlando del "cosiddetto maschilismo" che è frutto della teoria "darwiniana della legge del più forte", "poiché la natura ha dotato i maschietti di una forza muscolare maggiore di quella delle femminucce dai primordi dei tempi", aveva pronunciato le parole che riporto testualmente qui di seguito:

"Che cosa ha comportato tutto questo? Ha comportato una sedimentazione nella mentalità dell'uomo - intendo proprio del maschio - che è difficile da rimuovere perché è una sedimentazione che si è formata in millenni di sopraffazione, di superiorità. Quindi anche se oggi l'uomo accetta - e deve accettare - questa assoluta parità formale e sostanziale nei confronti della donna, nel suo subconscio il suo codice genetico trova sempre una certa resistenza. Ecco perché secondo me è necessario intervenire con le leggi penali, con la repressione, con la prevenzione".

Mi sono sentito come quando mi trovo davanti a quei compiti da correggere così sbagliati che mi fanno ritrovare la fede solo per poter efficacemente imprecare contro le divinità: indeciso se strappare tutto, ricorrere alla violenza o pazientemente smontare pezzo per pezzo quello che i miei occhi (in questo caso le mie orecchie) hanno dovuto subire, nella speranza di non dover più assistere a uno scempio simile.

Perché c'è una cosa che mi fa ribollire il sangue più di tutto.

E non è che mi aspetterei che un rappresentante del governo facesse più attenzione alle parole che usa,  evitando di parlare alla pancia delle persone solo per solleticarne gli istinti più bassi e primordiali.
E neanche che questo sembra un tentativo grossolano e fatto in malafede per sviare l'attenzione da temi cruciali per il Paese. Qualcosa del tipo spariamola grossa così tutti si soffermeranno su queste dichiarazioni e noi, nel frattempo, facciamo quello che ci pare.

Non è che che in questo modo si propone un determinismo da cui mi sento personalmente offeso: sei maschio QUINDI DEVI avere dentro di te un istinto di sopraffazione che il governo è pronto a punire. Come se non avessi il libero arbitrio, come se non avessi una sensibilità mia propria, come se non avessi un cervello che mi indirizza verso il bene e il male, come se la minaccia delle pene fosse l'unico deterrente possibile.
E neppure sentir parlare in maniera abborracciata di concetti importanti come subconscio e genetica, piegando ai propri beceri fini la cultura che, innanzitutto nella scuola, si cerca quotidianamente di diffondere tra le studentesse e gli studenti, in mezzo a mille difficoltà, responsabilità, tranelli burocratici e costanti tentativi di delegittimazione. 

No. La cosa che mi manda completamente fuori di testa è che in questo modo, con queste parole pronunciate da un ministro e ribattute da agenzie di stampa, social, giornali e tv, il maschio che usa la violenza nei confronti della donna, che la sopraffà, si sente in qualche modo doppiamente giustificato: lo ha detto la televisione che non ci posso fare niente se sono violento. E in più non è colpa mia, è colpa della genetica. E magari lo dice senza avere neppure la minima cognizione di ciò di cui sta parlando

Dato il livello altissimo del dibattito, non mi meraviglierei se qualcuno affermasse che Mendel, il padre della genetica, utilizzando per i suoi esperimenti i piselli  - e non le patate -, avesse voluto sottolineare la superiorità del maschio sulla femmina anche in ambito scientifico.

Non ci vuole un gene per giustificare comportamenti sbagliati.
Ma non ci vuole neppure un genio per capirlo.

Aretha Franklin, Respect 

16 novembre 2025

Fame

Paola Masino è un nome che, probabilmente, dice poco.
Diceva poco anche a me fino a un paio di anni fa quando incappai nel suo nome quasi per caso e, altrettanto per caso, lessi un suo racconto.
Lo avevo quasi messo da parte, questo racconto, quando l'altro giorno, nel portare a termine la mia folle idea di leggere integralmente - o quasi - l'Inferno di Dante con studentesse e studenti, mi è ritornato in mente preparando la lezione sul trentatreesimo canto e sull'episodio sconvolgente, inumano, straziante del conte Ugolino.
Questo racconto, scritto nel 1933, creò non pochi problemi all'autrice: durante il regime fascista non si potevano descrivere situazioni di povertà perché la fame non esisteva.
Un racconto potente, fitto di richiami più o meno espliciti all'episodio narrato da Dante: la tragedia di un padre che non riesce a dar da mangiare ai propri figli.
Un racconto difficile da leggere e da digerire, ma necessario.

«La mamma è morta.»
«Perché è morta?»
«Di fame.»
«Anche io ho fame ma non riesco a morire» disse Chiara sedendosi presso la tavola. Anche il padre sedette, in faccia a lei, e il fratellino Mario. Mario ha nove anni, Chiara sette, il padre, Bernardo, ne ha forse trenta ma non si può capire, con il volto e le mani cancellati e sgualciti dalle prove e i pentimenti che Dio ha avuti cercando di dar loro una vita. La mamma era nell'altra stanza, avvolta dalla morte, in un pallore violetto. I bambini stavano composti, con le mani tutte un gelone sanguinoso poggiate all'orlo del tavolo, i capelli ben pettinati, i volti desolatamente seri. Rimasero così muti qualche tempo, poi Bernardo si allungò sulla tavola e prendendoli per un braccio li scosse forte gridando: «Ora non soffre più».
Voleva farli piangere, ma i bambini chiusero soltanto gli occhi accennando di sì col capo, che lo sapevano che la mamma ora non soffre più. Bernardo sedette e ognuno riprese il silenzio interrotto. Mario si mise a mangiarsi le unghie.
«Mario» disse Chiara «se non smetti lo dico alla mamma.»
«Intanto è morta.»
«E allora, perché lei è morta, non avrete fatto i compiti» gridò ancora Bernardo dando un pugno sulla tavola.

«Sì che l'ho fatto» disse Mario. Aprì il cassetto e prese un foglio scritto.
«Oggi c'era il tema. Eccolo.»
«Leggimelo» mormorò Bernardo pianissimo. Credeva di dormire e temeva di svegliarsi con la sua propria voce, se avesse parlato forte.
«Tema: Il leone. Svolgimento: "Il leone è il re degli animali, è bello, fulvo, con la criniera di riccioli. E carnivoro, vive nel deserto. I bambini lo possono vedere nei libri o al Giardino Zoologico. Io non l'ho mai visto ma vorrei tanto che si mangiasse mamma mia quando mi picchia"
«Mangiare» mormorò Bernardo e incrociò le braccia sul tavolo e su quelle piegò il capo. Mario ripose il compito, Chiara batteva i denti dal freddo, ma quando si accorse che il babbo dormiva si mise in bocca il fazzoletto per non fare rumore.
«Chiara» disse Mario «lo sai che forse moriremo anche noi di fame?»
«Non importa Mario, mamma lo diceva sempre che un giorno o l'altro si deve morire.»
«A me, sai Chiara, mi dispiace di non veder il leone prima di morire, il maestro ne ha tanto parlato, mi ha fatto venire voglia.»
«Prova a domandarlo a Dio, Mario. A Dio gli piace far vedere le belle cose che ha fatto.»
Mario abbassò ancora la voce e si piegò sulla tavola verso di lei: «Ora che mamma è morta ti voglio dire una cosa, Chiara. A me Dio mi è antipatico, non voglio chiedergli nulla. E un egoista, ecco, ora l'ho detto. Perché se ci veniva lui a soffrire e morire sulla terra non ci mandava suo figlio, povero Cristo».
«Sì, ma quando uno è Dio non ha mica tempo di voler bene ai figli. Si deve occupare di tante cose. lo ho visto mamma come gli succedeva. Ci sono tante cose da fare in una stanza, figurati in un mondo.»
«E allora vuoi dire che non ha metodo, perché uno che vuol fare una cosa e la fa con metodo non si lascia prendere la mano, come lui che voleva tare un mondo buono e gli è
venuto fuori tutto un mondo cattivo.»
«Questo non vuol dire Mario. Perché, per esempio, io sono sicura che babbo nostro voleva fare due bambini felici e invece ha fatto noi che siamo due bambini infelici. Però certo lui ci ha fatto con metodo. La colpa è tutta nostra che abbiamo voluto essere infelici e lui ormai non ci può rimediare e si dispera.
Come Dio con gli uomini.»
A questo punto Bernardo alzò il capo guardandoli fisso.
«Sì, Chiara, che posso rimediare, se voi siete stanchi di essere due bambini infelici. Tutto quello che si è fatto si può disfare. Anche Dio potrebbe rimediare il male che ha fatto agli uomini, ma lui sta bene e se ne infischia. E un egoista, ha ragione Mario.»
«Ecco» disse Mario «lui che è uomo mi capisce.»
«Allora babbo, se puoi, sfacci pure. Ho tanta fame.»
«Anche io» disse Mario.
Bernardo si alzò, li prese per i polsi, per non stringere le piccole mani tumefatte, uscirono. Nessuno dei tre aveva un cappotto per coprirsi e fuori il bosco era tutto gelato. I raggi della luna tra gli scheletri degli alberi erano spade nude, cadevano a trafiggere la terra scivolando sul cielo vetrino, e questo martirio aveva uno stridore lieve. Non avevano salutato la morta. Bernardo chiuse la porta di casa a chiave, si mise la chiave in tasca, si avviarono per il bosco. All'aria ghiacciata i geloni dei bambini si aprirono e sanguinarono. Bernardo pensava che sono le dieci, alle tre potrebbero arrivare alla città: in città bisogna trovare o rubare qualche cosa da mangiare per i bambini. Camminano camminano, sempre sul suolo di cristallo, tra alberi pungenti. A un tratto Chiara grida: «Sbri-
gati, babbo. Ho troppa fame».
«Aspettami qui vicino a questo tronco» dice Bernardo a Mario. «Guarda sempre il cielo.»
Bernardo e Chiara si allontanarono di qualche passo, discosto dal sentiero.
Bernardo si inginocchiò davanti a Chiara, che è tanto piccola. Lei gli sorrise, gli fece una carezza lenta lenta, si fermò a guardare la propria mano e il volto di lui, scosse il capo:
«Ti ho insudiciato con il sangue dei geloni, babbo, non ti fa mica schifo?».
«No.» E con una stretta sola delle mani l'aveva già strangolata.
Allora la stese in terra, la baciò sulle dita malate, tornò da Mario. Mario non domandò nulla, si mise a camminare al suo fianco. Bernardo pensa che sono tre giorni che i bambini non prendono neppure una goccia di latte. Mario è forte, non si lamenta. Hanno lasciato Chiara da più di di un'ora e non hanno detto una sola parola. La strada si allunga, la luna cala, passa tanto tempo. Bernardo dentro sé ripete con tutta la volontà di cui è capace: "Mario non dire che hai fame. Mario non dire che hai fame".
A un tratto prova come se uno gli avesse dato un pugno sotto il mento; dopo un po' capisce che Mario ha detto che ha fame. Anche lui. I bambini non hanno pietà dei genitori. Non si domandano neppure se sia faticoso strangolare un bambino, nostro figlio. Vogliono morire e basta. Ora Bernardo cerca di commuovere Mario.
«Tra poco arriveremo alla città, Mario. Allora mangeremo tanto.»
Mario si è fermato. Ha il volto impassibile.
«Voglio mangiare subito. Anche io come Chiara.»
Stende la mano al padre per salutarlo. Si baciano sulle due guance come uomini; Mario si apre il bavero del vestito, Bernardo guarda da un'altra parte; Mario gli prende le mani e se le mette intorno al collo. Bernardo sente montare un odio forte contro quel suo bambino ingrato che lo fa tanto soffrire, con prepotenza, pur di appagare il proprio desiderio. Si volta e lo picchia con furore sulla testa sul volto sulle spalle poi lo lascia e si avvia di nuovo per il sentiero. Mario senza piangere lo segue. Non vanno più a fianco a fianco, hanno freddo. Mario non crede più a suo padre, anche lui è un egoista. Bernardo non può sopportare dietro sé quel rumore dei passi di Mario, figlio egoista. Allora bruscamente si ferma, si volta, Mario gli si avvicina, Bernardo dice: «Sei stato cattivo, Mario, ma ti perdono».
Lo strangola lentamente perché senta quanto lo ama, quanto grande è la forza orribile che gli è stata chiesta. Quando riprende il cammino è come sommerso in un'angoscia dolce, soffre meno al pensiero di essersi sacrificato per i suoi bambini.
Ora a lui non resta che uccidersi, come agli uomini che hanno perduto tutto. Ma lui il suo tutto l'ha dato ai suoi bambini, uccidersi è come rimproverarglielo, pentirsene. Sarebbe crudele e immorale; invece andrà a costituirsi perché la società lo vuole, ed è una cosa abbastanza morale. Per arrivare in città ci sono ancora due ore perché è molto stanco e ha i piedi quasi congelati, può appena camminare.
Quando arrivò erano le quattro, vagò un'ora prima di trovare un ufficio di polizia; trovatolo entrò e chiese subito del commissario. Al commissario disse con aria furba: «Se lei mi fa dare una zuppa calda, dopo le racconto un bel fatto». Gli portarono una scodella di brodo: lui tentò inutilmente due o tre volte di ingoiarne un cucchiaio, buttò tutto in terra con ira e si mise a singhiozzare: «Fatemi mangiare, fatemi mangiare.
Ora come faccio se non so più mangiare!».

Tori Amos, Winter

 



09 novembre 2025

Condannati

La conosco da ormai quattro anni, V., da prima che arrivasse nella mia scuola.
Avevo fatto un breve corso di introduzione al latino per ragazze e ragazzi delle scuole medie e lei era stata tra i pochi coraggiosi che - grazie a o nonostante il corso - aveva deciso di scegliere una scuola in cui si studia questa dannata lingua morta (ma ricordo sempre che il latino è vivo e i morti siete voi).
Sorridente, brava, pacata. Forse anche troppo per essere un'adolescente.
Di lei mi avevano parlato i suoi professori delle medie, incantati dalla sua dedizione allo studio; di lei ho continuato a sentir parlare i colleghi che ne hanno sempre tessuto le lodi.
Un quadro perfetto, senza un dettaglio fuori posto.
Troppo perfetto.
Fino all'altro giorno, quando un collega  è venuto in vicepresidenza a chiedermi quale sia la procedura che gli alunni devono seguire per chiedere il trasferimento e se esistano dei licei scientifici serali, perché una sua studentessa bravissima vorrebbe fare questo cambio di scuola.
Non so perché, ma ho pensato subito a V.
Era lei.

Dopo poco, la porta da me.
Mi rendo conto di non averla mai incrociata nei corridoi: siamo davvero tanti nella mia scuola e la fretta, le incombenze, fare in modo che nessuno si faccia male, fumi, usi il cellulare, urli, non aiutano certo la socializzazione.
V. è cambiata, è cresciuta, ma ne riconosco i colori e lo sguardo.
Sorride quando mi vede, ma gli occhi sono pieni di lacrime e mi racconta una storia di aspettative che sente premere su di sé, di un amore profondo per lo studio, soffocato, però, dai ritmi della scuola, di un affetto incondizionato da parte di mamma e papà, della paura di perdere la stima dei suoi compagni e dei professori se per una volta ottiene un risultato inferiore al suo standard, del terrore del proprio giudizio su sé stessa.
Mi racconta del suo percorso nella ginnastica artistica: confessa che l'infortunio che le ha impedito di continuare lo ha vissuto come una liberazione, sorride parlandomi del suo incarico da allenatrice perché in quel momento si sente libera.
Immagina il suo futuro: vorrebbe studiare astrofisica o biologia molecolare. L'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo rispetto ai quali l'uomo si sente sempre e perennemente fuori posto, ma nei confronti dei quali nutre sempre una grande curiosità.
La ascolto in silenzio, cercando di evitare le frasi di circostanza: concentro il mio sguardo sulle sue mani che si intrecciano su sé stesse, che toccano ossessivamente la collanina; le do una penna per evitare che continui a giocare nervosamente con le unghie.

E penso alla condanna che grava sulle spalle di chi è troppo bravo e al contempo troppo sensibile, alla mia frustrazione di voler dire la parola risolutiva che liberi istantaneamente V. da questo peso e di non riuscire a farlo; penso anche al mio essere (stato) cialtrone più che bravo e al mio perfezionismo che alle volte rasenta il patologico.
Rifletto sulla mancanza di una vera cultura del fallimento, che vada oltre gli slogan di Einstein rimandato in matematica - che poi è una banale leggenda metropolitana costruita ad hoc - e che ci insegni che siamo degni di amore, attenzione e stima anche se non raggiungiamo il massimo in tutti i campi.
Di video motivazionali in tal senso ce ne sono a iosa e alcuni di questi banalizzano la questione in modo esasperante; ciò che continuo a chiedermi io, invece, è quando e perché siamo diventati così ossessionati dalla bellezza, dal raggiungimento di ottimi risultati in tempi veloci, dall'essere performanti (uso volutamente questo termine fastidioso per esprimere un concetto che lo è altrettanto). 
La risposta ingenua e semplicistica potrebbe essere da quando ci sono i social ma non credo che la questione si possa risolvere così.

Non servono, credo, tanti discorsi: servirebbe una riflessione profonda e collettiva, ma temo che siamo tutti troppo presi dalle mille cose da fare, dal tempo che sembra non bastare mai (eppure è lo stesso che avevano i nostri genitori e i nostri nonni) per poterci prendere un attimo per riflettere seriamente su di noi - individualmente e come società -  e cambiare eventualmente direzione oppure accettare consapevolmente la strada che stiamo percorrendo
Quando e dove abbiamo perso la percezione del nostro essere umani e quindi costituzionalmente imperfetti e incompleti? 
La risposta non ce l'ho, ma mi riprometto davvero di pensarci.

V. è uscita dalla stanza, con un minimo accenno di sorriso perché credo di aver fatto il pagliaccio come al solito. O forse perché ha avuto anche solo per un attimo la percezione che le sue difficoltà, i suoi pensieri, le sue preoccupazioni sono comuni e che un peso, anche enorme, se portato da più persone, può diventare, forse, più sopportabile.

Colapesce e Dimartino, Splash






26 ottobre 2025

Un eroe del nostro tempo: il coordinatore di classe

Nei corridoi della scuola li riconosci al primo sguardo.
Prede o predatori: non c'è altro atteggiamento possibile per loro.
Camminano sicuri, spesso con un modulo da firmare in mano, con la determinazione di un cacciatore che cerca di stanare un cerbiatto e con la sicurezza di chi sa di poterci riuscire.
Oppure, sono loro stessi i cerbiatti: si acquattano, fingono di parlare con qualcuno o di essere assorti nella lettura per non farsi vedere, si mimetizzano pur di scansare quel collega che incede proprio verso di loro per parlare dell'ennesima volta che Gianfilippo non si è tolto il cappuccio in classe.
Sono i coordinatori di classe, i veri eroi silenziosi del nostro tempo.
Come dei vassalli medievali, ricevono la loro investitura dal dominus della scuola e la accettano inginocchiandosi con gratitudine, pensando al momento in cui riceveranno il loro compenso da capogiro. Da capogiro nel senso che gireranno il capo dall'altra parte, non cedendo alla tentazione di batterlo contro uno spigolo per aver accettato l'incarico ed aver ricevuto in cambio due noccioline al bar.
Divinità dalle mille braccia, intrattengono rapporti con genitori, alunni, dirigente, segreteria, spesso contemporaneamente. Agenti di viaggio, consulenti informatici, esperti di supporto psicologico, non disdegnano anche di dare consulenze mediche e legali quando necessario.

La mia esperienza mi ha permesso di individuare tre tipi umani specifici, tre modi per svolgere questo incarico, due modi per morire (e uno per sopravvivere).

Il preciso: riceve l'incarico come un eroe della Marvel che scopre improvvisamente di avere un superpotere che lo rende invincibile. A novembre del primo anno di scuola, ha già deciso la meta del viaggio di istruzione dell'ultimo anno. Conosce vita, morte e miracoli di alunne e alunni, i nomi dei loro animali domestici e le loro intolleranze alimentari. Fa stalking pesante ai colleghi ricordando loro scadenze, comunicazioni, riunioni, case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale, spesso tramite mail mandate ad orari improponibili.
Se ti chiede per conto degli alunni di spostare una verifica, ha già pronta la soluzione alternativa: calendarizza gli impegni della classe ma che la tua vita e non escludo che sia in grado di individuare anche il momento migliore per fare la spesa in base al tuo orario di servizio.
Tutto meraviglioso.
Il coordinatore perfetto.
Peccato che, per fare ciò, sia poi inesorabilmente destinato a diventare dipendente da psicofarmaci. 

Il pauroso: avrebbe voluto rifiutare l'incarico, ma aveva troppa paura per farlo. Si muove in punta di piedi nei corridoi e nelle segreterie anche in mezzo al caos più totale e quando deve chiedere qualcosa, solitamente, fa una premessa lunghissima che parte dall'epoca del Risorgimento per spiegarti il motivo per cui sta facendo quella richiesta. Legge le comunicazioni mille volte, interrogandosi anche sul senso profondo della punteggiatura per non sbagliare nella comprensione del testo. Ha un rapporto quasi morboso con la mail: teme che qualcuno possa scrivere alle due di notte per comunicare un'assenza imprevista o la volontà di far partecipare la classe ad un progetto. Lui sente di dover essere lì, pronto come una sentinella, vigile, salvo poi andare in confusione perché non si sente in grado di rispondere.
Un anno di coordinamento per lui equivale ad un anno di vita di un cane, ovvero a circa 7 anni di vita umana.

Il lassista: non si rende conto di essere stato nominato coordinatore fino a quando alla prima riunione non gli dicono che tocca a lui farlo. A questa presa di coscienza seguono maledizioni in lingue antiche e ormai date per scomparse, seguite dalla ricerca spasmodica di un sostituto o di una vittima sacrificale, individuata nella figura mitologica del segretario del consiglio di classe.
Non sa neppure quale sia la classe che coordina, ignora cosa significhino le sigle DSA, PTOF, PDP, PFP ma sa perfettamente come sfruttare il suo potere per farsi offrire il caffè dai colleghi al bar. Convoca i genitori spesso ignorandone il motivo ma, in caso di necessità, sfodera un repertorio di frasi fatte che variano dal classico è intelligente ma non si applica al più sofisticato metteremo in atto le strategie per portare a termine positivamente il nostro intervento educativo, contando sulla fattiva collaborazione tra scuola e famiglia.
Non ricorda nomi di alunni e colleghi ma se la cava con un caro/carissimo/grande: vive il suo incarico con la leggerezza di un bohémien demandando tutto alla buona volontà di chi lavora con lui.
Alla fine dell'anno, quando vede il suo pagamento, dopo essersi interrogato sull'origine di quei soldi perché è convinto di non aver avuto incarichi aggiuntivi, si lamenta ad alta voce di quanto poco riconoscimento economico sia dato ad un impiego di responsabilità come quello da lui svolto.

Alla fine diciamocelo: i coordinatori ci salvano la vita, soprattutto quando ci viene fatta qualche richiesta e noi, a cuor leggero, possiamo dire chiedi al coordinatore.
Fino a quando i coordinatori non siamo noi.

Elio e le storie tese, Largo al factotum (da Il barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini)


Il fascino del limite

Ne parlavo l'altro giorno con C. C. è indubbiamente una delle teste migliori che io abbia incontrato in questi venti anni di insegnament...