02 marzo 2025

Un percorso accidentato

È il 26 aprile.
Francesco, un trentaduenne aretino di nascita ma cresciuto in Provenza, decide di dedicare la propria giornata al trekking e va a visitare un monte noto per la sua altezza, che si trova a circa 20 km da casa sua.
Dovendo scegliere un compagno, chiede al fratello Gherardo di compiere con lui questa impresa e i due si avventurano verso la cima di questa altura, tanto imponente quanto erta.
Sembrerebbe l'inizio di un brutto documentario di quelli che trasmettono d'estate in tv, se non fosse che siamo nel 1336, il Francesco di cui si parla è Francesco Petrarca e il monte da scalare è il Mont Ventoux.

La storia - raccontata da Petrarca in una delle sue Familiares - è questa: il protagonista inizia a scalare il monte, ne vuole raggiungere la vetta perché sa che da lassù la vista è meravigliosa; dopo una partenza convinta, però, iniziano le difficoltà. Gherardo riesce a salire rapidamente e senza sforzo mentre Francesco, cercando una strada più piana anche se più lunga, rimane spesso indietro, talvolta addirittura sembra andare verso il basso, fino a quando con grande fatica riesce a raggiungere il fratello che, invece, procede senza esitazione.
Nonostante sia consapevole che la ricerca della strada pianeggiante è ciò che gli impedisce di raggiungere agevolmente la vetta, Francesco continua a commettere lo stesso errore e, mentre procede faticosamente, ragiona su ciò che lo blocca e non gli permette di salire quanto vorrebbe. Alla fine, acquisita la consapevolezza del fatto che, per trovare la via che lo porta in cima, l'uomo non ha che da concentrarsi su sé stesso e sulla propria anima, riuscirà a raggiungere il suo obiettivo ma il passaggio più toccante è quello in cui l'autore compie un'autoanalisi di una precisione chirurgica:

Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia,  ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: "Ti odierò, se posso; se no, t'amerò contro voglia"

Quante volte ci capita di sapere quale sia la cosa giusta da fare, di conoscere perfettamente la strada da percorrere ma di andare ugualmente in tutt'altra direzione, quasi trascinati da una corrente a cui non riusciamo ad opporci? Si prova impotenza, ma allo stesso tempo languore, un languore in cui ci si perde e ci si crogiola. Consapevoli di essere incapaci di esercitare la propria volontà, si ha la sensazione di non essere in grado di emanciparsi dall'incubo delle passioni. 
È un percorso accidentato quello che porta in cima, fatto di faticose salite e rapide discese, tutt'altro che lineare; è un percorso che chiede di liberarsi dai pesi superflui, dai bagagli inutili e dannosi, di rinunciare agli ideali e ai princípi a cui magari ormai aderiamo per consuetudine ma senza alcuna convinzione.

Il dubbio che sorge, poi, è un altro: se è vero, come è vero, che per Petrarca la cima del monte rappresentava l'elevazione dell'anima fino a Dio, cosa rappresenta il Mont Ventoux per ognuno di noi?
Non credo ci sia una risposta univoca ma è una domanda che dobbiamo necessariamente porci perché se non sappiamo qual è il nostro obiettivo, il punto a cui tendiamo, la nostra aspirazione ultima, difficilmente riusciremo, non dico a trovare, ma anche solo ad intraprendere un cammino che ci conduca lì.
Dove poi rischieremo anche di trovarci soli.

E poi dicono che la letteratura è noiosa. 

Franco Battiato, E ti vengo a cercare

23 febbraio 2025

Ciò che non si vede

Solitamente, alla domanda che spesso viene posta a me (come a tanti altri docenti) sul motivo che mi ha spinto ad insegnare rispondo in un solo modo: insegno perché non avrei saputo fare altro nella vita.

Forse è vero, forse no: mi è mancata (o non ho cercato) l’occasione di fare colloqui di lavoro, di mettermi in gioco in altri campi - anche se c’è qualcosa che sta bollendo in pentola e di cui non vedo l’ora di parlare.
Quando, però, vivo settimane come questa che è appena passata, capisco una volta di più - dopo vent’anni - che altro non avrei voluto fare.

Stando fuori dall’aula con ragazze e ragazzi mi rendo conto di quanto il luogo in cui ci si trova e i ruoli che ciascuno di noi - studenti e docenti - recita possano influenzare ogni aspetto della vita scolastica.
Superare fisicamente e ideologicamente la cattedra non è facile anche per chi come me la considera un tavolo come un altro e raramente ci si trincera dietro per difendere privilegi e poteri acquisiti una volta per tutte e indiscutibili.

Eppure andare fuori dai muri della scuola permette di vedere gli altri per ciò che realmente sono e non per ciò che ci si impone di mostrare e dimostrare a chi ci circonda. Gli abiti richiesti dalla scuola vengono dismessi per mostrarsi per ciò che si è: non si riesce a fingere troppo a lungo.

Amo l’arte, è difficile farmi uscire da musei e librerie, mi piace cantare (e - surprise surprise- sono anche intonato), ho un telefono con la batteria penosa, sono un fotografo penoso, non ho senso dell’orientamento e non vado d’accordo con Google maps: queste e tante altre cose hanno scoperto di me i miei studenti.
Cose che non si vedono, ma che rendono umani e non macchine che si limitano a diffondere conoscenze e a sparare valutazioni.

Da parte mia ho scoperto persone dalle mille sfaccettature, che hanno voglia di condividere il passato e ipotizzare il futuro, che non hanno timore di mostrare tenerezza e paura, appassionati di musica e di arte, che si commuovono ammirando libri, che decidono di spendere i propri soldi per entrare in una biblioteca; ho scoperto che guardando i soggetti di alcuni quadri si ricordavano cose dette in classe e l’emozione che si prova in quei momenti non si può spiegare.
Tutto quello di cui a scuola non c’è tempo di parlare. Tutto ciò che è veramente essenziale ma a scuola non si vede.

(Già immagino colleghi che sbuffano alzando gli occhi al cielo e ricordando quante responsabilità hanno gli accompagnatori nelle gite a fronte di alcun corrispettivo economico. Ho una visione romantica della cosa. Ne sono consapevole? Sì. Ho intenzione di cambiarla? No.)

Marco Mengoni, Esseri umani

16 febbraio 2025

Siamo tutti un po' Lucio

È il Sanremo del 1996.
Ho 16 anni, poche idee e molto confuse.
Ad un certo punto appare lei: rossetto e camicia rossi, pantaloni in pelle nera ed una voce mai sentita prima.
Chiamo subito mia mamma che mi sonnecchia accanto per condividere con lei questa scoperta.
È Carmen Consoli.
La sensazione di ascoltare per la prima volta una musica che parla  proprio a me ce l'ho ancora addosso ed è quella che ho rivissuto quest'anno, che di anni ne ho qualcuno in più, ascoltando Lucio Corsi.

Di lui è stato detto già tanto: personaggio atipico, di cui si sa poco o nulla, ha avuto il merito di smuovere qualcosa in tutti quelli che ritengono che la musica - come la poesia - possa e debba essere un'occasione per far trovare le parole utili a descrivere sentimenti che magari non sappiamo neppure di provare e non solo il mezzo per fare soldi e muovere le terga.
È quello a cui va riconosciuto il merito di aver scritto un pezzo che delimita in maniera netta due territori, quello del volevo essere e quello del sono: la zona intermedia tra questi due campi è terreno fertile per l'infelicità, è il luogo in cui crescono rigogliosi rimpianti e rimorsi che avvelenano le esistenze.

Volevo essere un duro
che non gli importa del futuro
Un robot
Un lottatore di sumo
Uno spaccino in fuga da un cane lupo
Alla stazione di Bolo
Una gallina dalle uova d’oro
Però non sono nessuno
Non sono nato con la faccia da duro
Ho anche paura del buio
Se faccio a botte le prendo
Così mi truccano gli occhi di nero
Ma non ho mai perso tempo
È lui che mi ha lasciato indietro

Quante volte ci ho pensato (e l'ho scritto in queste pagine): il desiderio di essere il cattivo dei film, il bello e dannato, l'uomo forte, decisionista, maschio alpha senza esitazioni, la partita di calcio alla domenica e la capacità di montare mobili ikea senza istruzioni. Tante volte la consapevolezza di non essere così mi ha quasi travolto, nella balorda convinzione di essere l'unico a non seguire un modello che è stato spacciato per anni come l'unico possibile.
Poi, fortunatamente, arriva la consapevolezza di non essere soli, e l'infelicità un po' si attenua.

Vivere la vita
È un gioco da ragazzi
Me lo diceva mamma ed io
Cadevo giù dagli alberi
Quanto è duro il mondo
Per quelli normali
Che hanno poco amore intorno
O troppo sole negli occhiali

La vita, che facile non è per nessuno, quella vita che alterna momenti di gioia incontenibile e di profondissimo dolore, può diventare un gioco da ragazzi quando ci si inizia ad accettare, quando quel sono fatto così non è la scusa per non cercare di migliorarsi ma la definizione di un preciso punto di osservazione del mondo e di un punto di partenza per il raggiungimento dei propri obiettivi.

Volevo essere un duro
Che non gli importa del futuro no
Un robot
Medaglia d’oro di sputo
Lo scippatore che t’aspetta nel buio
Il Re di Porta Portese
La gazza ladra che ti ruba la fede
Vivere la vita
È un gioco da ragazzi
Me lo diceva mamma ed io
Cadevo giù dagli alberi
Quanto è duro il mondo
Per quelli normali
Che hanno poco amore intorno
O troppo sole negli occhiali

Sì, può succedere di avere la sensazione di non eccellere in niente e di osservare con ammirazione ed invidia le vite degli altri che appaiono come lune senza buche; queste, però, sono Sirene, sono puro inganno, un’immagine esteriore che non fa altro che spingerci a scappare dalle nostre paure, viste come qualcosa da nascondere e non come qualcosa da affrontare a viso aperto.

Volevo essere un duro
Però non sono nessuno
Cintura bianca di Judo
Invece che una stella uno starnuto
I girasoli con gli occhiali mi hanno detto
“Stai attento alla luce”
E che le lune senza buche
Sono fregature
Perché in fondo è inutile fuggire
Dalle tue paure
Vivere la vita è un gioco da ragazzi
Io
Io volevo essere un duro
Però non sono nessuno
Non sono altro che Lucio
Non sono altro che Lucio

E sicuramente - che vogliamo ammetterlo o no - siamo tutti un po' Lucio.

09 febbraio 2025

La voglia di (r)esistere

Non lo avevo mai fatto prima. Non so perché.
L'altro giorno, sprezzante del pericolo, ho deciso di non andare nel bagno dei prof della mia scuola, ma di utilizzare i servizi igienici riservati agli studenti.
Mi sentivo un po' Indiana Jones (ma con la prostata ingrossata) e mi attendevo di trovare chissà cosa in quel bagno: soprattutto immaginavo di trovare muri decorati con simpatici falli, offese, dichiarazioni di amore o di guerra. Già mi vedevo raccontare ai miei colleghi quello che avevo visto lì, un po' come Alberto Angela che illustra le scoperte sensazionali su una nuova civiltà.
E invece nada, nisba, niente.
A parte qualche ACAB scritto con poca convinzione e un paio di sparuti "Forza Viola" c'era poco altro.
Eppure i bagni me li ricordavo diversi: cos'è successo nel frattempo?

Ricordo quando andavo all'università: gli orrendi muri piastrellati di blu chiaro dei bagni dell'Università degli studi di Bari fornivano un campionario di varia umanità. 
Dagli accostamenti tra l'Onnipotente e vari animali (tra cui vincevano nettamente i suini) alle rivendicazioni contro  docenti che - a parere degli scriventi - avevano abitudini sessuali socialmente poco accettabili, passando attraverso numeri di telefono da chiamare per trovare la felicità in varie forme, quei muri raccontavano storie ed esprimevano la volontà di esistere e in qualche modo di resistere al tempo. 
Quelle scritte indicavano la volontà di dire qualcosa a tutti e lasciare una traccia di sé che sarebbe durata almeno fino a quando qualcuno non avesse provveduto alla pulizia dei muri, quindi pressoché in eterno.
L'accostamento è un po' epico, ma mi vengono in mente i suggestivi graffiti pompeiani, quelle scritte sui muri che contenevano temi politici, offese personali, parodie letterarie, divieti e - immancabili - riferimenti sessuali talvolta ai limiti della decenza (per chi è curioso, qui c'è un piccolo ma significativo repertorio).

Penso anche ad un fenomeno molto più recente: il MeP, movimento per l'emancipazione della poesia, nato ormai 15 anni fa a Firenze (se volete informazioni potete trovarle qui). Propriamente non si tratta di scritte sui muri ma di testi incollati ovunque per strada e composti da poeti anonimi che si pongono come unico scopo quello di diffondere la poesia, scrollandole di dosso quegli strati ormai sedimentati di polvere su cui - va ammesso - l'insegnamento scolastico ha la sua grossa fetta di responsabilità.
Se, camminando per la città, rallentassimo un attimo alzassimo gli occhi dal cellulare, potremmo imbatterci in versi come questi:

Ho capito di amarti
in un giorno normale,
io ero banale
molto scostante,
non mi vedevo tra la gente.
Ho visto te.
E ti ho lasciato le mie parole
per poterti addormentare la sera
senza tenere la luce accesa,
sprofondare nel buio
e non avere paura.
Hai visto me.
E mi hai lasciato i tuoi occhi,
adesso anche io
mi vedo tra la gente.
Ho capito di amarti
una notte di pioggia,
chiara come tante
in cui li tuo sorriso
ne fu eco per sempre.
Ed oggi che amarti
è capire tutto e niente
ti ho lasciato questi miei silenzi,
nero su bianco
per ricordarti che
anche amare
bisogna saperlo fare.

Che l'uomo abbia bisogno di comunicare è un dato di fatto incontrovertibile, ma è evidente che il luogo in cui ciò avviene è cambiato. Ai muri reali si sono sostituiti i feed ovvero le pagine di Facebook prima e di X, Instagram e Tik Tok poi: è su quelle pagine che si dà sfogo all' hate speech, è tramite questi mezzi che si mostra ciò che di sé si ritiene essere la parte migliore, è così che si entra in contatto con gli altri, privandosi, però, del tatto, il senso primordiale dell'uomo, quello che fa avvertire - in senso letterale e metaforico - la consistenza delle cose. Anche la poesia trova spazio sui social: penso, ad esempio, a Rupi Kaur che riesce a conciliare poesia e velocità di fruizione in un modo spesso notevole, a pagine che pubblicano scritti di autori classici (Cesare Pavese sta vivendo una seconda giovinezza) o anche a trend di tik tok. L'altro giorno, spiegando Tanto gentile e tanto onesta pare ho scoperto che questa poesia è stata ripresa sui social ma ho rifiutato qualunque offerta da parte di chi voleva rendermi edotto sull'argomento. Ho troppo rispetto per il nasone autore di quei versi.

C'è poi un'altra cosa che avviene principalmente su Instagram e che segna uno spartiacque tra generazioni: la GenZ sembra non voler lasciare traccia di sé - limitandosi a pubblicare stories che in 24 ore spariscono - e voler avere il controllo di chi guarda ciò che pubblica. Che è poi l'esatto contrario di ciò che avviene con le scritte sui muri, accessibili a tutti, anonime sia nella produzione che nella fruizione e potenzialmente eterne.

È un cambio antropologico importante su cui riflettere, senza derubricarlo a cosa stupida che fanno i giovani.

Psicologi, Sui muri





02 febbraio 2025

Una piccola Odissea linguistica

Lo ricordo bene quel giorno, nonostante sia passato molto tempo.
1997. Ultimo anno di liceo, aula della 3^F, quando ancora gli studenti del classico si sentivano fighi perché avevano un modo diverso di contare gli anni di scuola; Invicta sulle spalle, Rocci in mano, vado trionfante da R., mia meravigliosa compagna di banco - in realtà era dietro di me per un machiavellico calcolo di utilità reciproca durante i compiti in classe distinti rigorosamente in file - e le dico: "Buongiórno (con la o chiusa)! Sei pronta per il compito di grèco (con la e aperta)?"
Più che il terrore per quel maledetto Tucidide che ci attendeva (e che ho sempre avuto l'impressione che scrivesse i suoi testi dopo aver messo serenamente le parole in un frullatore), più che il terrore - dicevo - potè lo stupore. R. cercò di trattenersi ma poi scoppiò in una fragorosa risata di fronte a me che gloriosamente cercavo di pronunciare le parole correttamente così come mi avevano insegnato la sera prima durante la lezione di dizione del corso teatrale che frequentavo con tanta passione.
Scegliere di parlare correttamente seguendo le regole della ortoepia (come dicono quelli bravi) era davvero una scelta di campo nella mia città almeno a quei tempi: se non dicevi cósa o paróla (che suonavano tipo cóusa e paróula) non eri riconosciuto dai pari. Semplicemente parlavi da ricchione (non da omosessuale, proprio da ricchione). Ma a me interessava poco ed andavo avanti nella mia battaglia contro una lingua di cui volevo liberarmi; la lotta è diventata ancora più serrata all'università perché mi sembrava che parlare di letteratura, di filologia, di archeologia con una cadenza assimilabile a quella di Pio e Amedeo rendesse triviali anche autori sublimi.

La mia vita personale e lavorativa mi ha poi portato nella ridente (!) Milano dove mi sono scontrato con una realtà diversa ma al contempo simile: superato il pregiudizio per cui le mie origini pugliesi mi avrebbero dovuto rendere simile nella parlata a Lino Banfi (approfitto per dire alle lettrici e ai lettori non pugliesi che nessuno in Puglia dice Madonna benedètta dell'Incoroneta), mi sono trovato mani e piedi in un mondo di persone che sbagliavano la pronuncia di ogni parola nella convinzione di essere sempre dalla parte del giusto. 
Nessuno percepiva la violenza che la lingua italiana subiva quando diceva trè (con la e non aperta ma spalancata) in perfetto stile Mike Bongiorno; nessuno inorridiva sentendo Benedetta Parodi che in uno spot pronuncia spórco sècco riuscendo nella titanica impresa di sbagliare due parole su due.
Vivevano nell'inconsapevolezza dell'errore e nella presunzione della superiorità per colpa di un sistema radiotelevisivo milanocentrico (soprattutto a partire dagli anni '80) che faceva sembrare normale sbagliare le pronunce perché tanto in televisione dicono così e la tv in quegli anni aveva sempre ragione.
Io in quel mondo ero un corpo estraneo, in qualche modo uno sradicato (mia perenne condizione esistenziale). Facevo mie le parole che Ungaretti scrive nella poesia Girovago

In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare

A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto

E me ne stacco sempre
straniero

Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute

Godere un solo
minuto di vita
iniziale

Cerco un paese
innocente

Per trovare un senso, per mescolarmi alla folla, ho iniziato anche inconsapevolmente a parlare come loro, pur non transigendo su alcune pronunce agghiaccianti tipo béne (con le e non chiusa, ma letteralmente strizzata). Ma tutto questo non è servito perché la vita, beffarda, mi ha portato a trasferirmi in Toscana.

E lì sono iniziati i dolori per me che ho una lingua profondamente stratificata, che conserva in sé, nelle parole e nella pronuncia, tutta la mia storia.

Sono iniziati i dolori perché questa terra è abitata da persone che respirano fin da piccoli la pronuncia corretta, parlano un italiano pressoché perfetto anche quando non hanno avuto l'opportunità di studiare (come si poteva, per esempio, non rimanere affascinati dal modo in cui parlava Pietro Pacciani?) e aggiungiamo anche, eufemisticamente, che non nascondono  la profonda consapevolezza che hanno di questa loro caratteristica.

Io, ancora una volta un corpo estraneo, tento di ricordare le pronunce corrette delle parole ma talvolta - spesso direbbe qualcuno - inciampo. In più, mi rendo conto che sto tirando su generazioni di rompiscatole: le mie alunne e i miei alunni - vessati dalle mie ossessioni sulla precisione nella scelta delle parole e sulla cura dell'espressione - prima sommessamente poi palesemente si vendicano correggendomi le pronunce sbagliate. Esèmpio, dialètto, tòppa, tètro sono solo le ultime che mi hanno corretto: ogni volta che lo fanno sono segretamente orgoglioso di loro perché la loro attenzione all'errore e il loro senso critico, esercitati in modo corretto, sono piccoli tasselli che li renderanno donne e uomini migliori.
Imparo costantemente e continuerò a farlo e sono grato alla vita che mi ha portato a fare questo viaggio perché, probabilmente, se fossi rimasto nella mia terra di origine avrei continuato a vivere, a studiare, a fare il mio lavoro ignorando tutto ciò e probabilmente rassegnandomi a parlare come i pugliesi che, come dice Dante nel De vulgari eloquentia, turpiter barbarizant, ovvero parlano in modo orribile. E Dante ha sempre ragione.

Ma un dubbio mi assale.

Se è vero, com'è vero, che la nostra lingua parla di noi, della nostra vita e delle nostre esperienze e ne conserva tracce, quale rapporto ci deve essere tra italiano standard, una lingua corretta ma asettica, e il cosiddetto idioletto, ovvero la lingua individuale, quella che ci identifica in maniera univoca proprio come se fosse una nostra impronta digitale?
È corretto rinunciare alla nostra individualità linguistica in nome di una lingua che è di tutti, ma in realtà non è di nessuno? Ripulendosi dagli errori di pronuncia si rinnega anche la propria storia?

A queste domande non so rispondere, almeno per ora.

Ma ho controllato e la pronuncia corretta è idiolètto. Almeno i miei piccoli rompiscatole non mi correggeranno.

Sud Sound System, Le radici ca tieni



 

26 gennaio 2025

La nebbia agli irti colli?

Interno notte.

C'è alle mie spalle un uomo di cui percepisco solo l'odore - profumo da maschio alpha e sigarette di contrabbando - che mi urla che posso fare una sola telefonata, usando l'apparecchio a disco che ho di fronte a me. No, non posso usare il cellulare.
Prendo la cornetta: non la ricordavo così pesante. Infilo il dito nel buco corrispondente al primo numero ma poi mi blocco. Non ricordo nessun numero di telefono a parte il mio.
Lo dico con un filo di voce al mio aguzzino. Sento il freddo della canna della pistola puntata sul mio collo. Chiudo gli occhi e...
Li riapro perché fortunatamente era solo un sogno.

Il mio primo pensiero è stato: "Ma allora vuoi vedere che ha ragione il ministro Valditara quando dice che bisogna tornare a imparare le poesie a memoria come quando ero alle elementari?"

In effetti, se avessi fatto un sogno del genere quando ero una creatura di meno di 10 anni, non solo mi sarei facilmente salvato - conoscevo a memoria i numeri di telefono di parenti e amici e l'elenco telefonico era il mio fedele compagno quando non sapevo cosa leggere nei momenti in cui ero solo con il mio intestino - ma avrei stordito il mio rapitore sciorinandogli i contatti telefonici dei negozi più famosi della mia città.
Alla fine mi avrebbe lasciato andar via per disperazione.
Memorizzavo di tutto, in quegli anni, i miei interessi andavano dagli slogan delle pubblicità al contenuto di un libretto in cui si spiegava come trattare ogni tipo di macchia ma la mia vera passione erano le raccapriccianti canzoni che si imparavano in chiesa: se qualcuno ora mi dicesse "Tu sei la mia vita" risponderei senza alcuna esitazione "Altro io non ho"; quando qualcuno mi si presenta e mi dice di chiamarsi Rosanna nella mia testa risuona immediatamente "Rosanna - come dicevo ai tempi - Cristo Signor".
Se avessi usato quel mio tempo per imparare le lingue, ora probabilmente sarei il massimo esperto mondiale di lingue ugro-finniche.

Torniamo alle parole del ministro. 
Che poi, diciamolo, è la solita anticipazione, la presunta fuga di notizie sulle riforme che verranno che serve solo a tastare il terreno, a far smuovere l'opinione pubblica  - che come spesso accade ha molte opinioni basate sul nulla - e a far parlare di sé: mi vengono in mente le parole di Annalise Keating, spietato avvocato protagonista di Le regole del delitto perfetto, meravigliosa serie che consiglio a tutti: "non deve avere senso, deve solo sembrare un casino". 
Ed è esattamente quello che è successo: poesie a memoria, Bibbia, storia patria e latino sono state la combinazione perfetta per far parlare di una scuola che torna indietro invece di guardare al futuro.

Glisso sull'insegnamento del latino alle medie e sulla storia patria perché andrei oltre il codice penale.
Taccio sulla Bibbia perché non mi piace la pena che Dante dà agli eretici nell'Inferno: preferisco altre punizioni rispetto alle tombe infuocate.

Ovviamente si è levato il coro unanime di quelle persone che ritengono che a scuola si debba insegnare la contemporaneità: le studentesse e gli studenti a scuola dovrebbero imparare il senso civico, il rispetto, l'educazione finanziaria, l'intelligenza artificiale,  case, libri auto viaggi fogli di giornale.
Fermo restando che per poter insegnare queste cose i docenti dovrebbero essere i primi a conoscerle (e non è scontato), ho una convinzione, una delle poche della mia vita: la scuola non deve inseguire la contemporaneità perché resta inevitabilmente sempre cinque passi indietro ma ha il compito di dare gli strumenti grazie ai quali ragazze e ragazzi, usciti da lì, possano interpretare il mondo e siano in grado di acquisire le nuove informazioni necessarie alla propria vita. 
L'idea, poi, di inserire materie - già la parola mi fa ghiacciare il sangue nelle vene - come l'educazione all'affettività è alquanto bizzarra se non è ben strutturata: chi la insegna? Cosa insegna? Dovrà essere valutata? È chiaro che è un tema, questo come tanti altri, su cui non si possono chiudere gli occhi ma credo che più che quello che si può spiegare e che va poi scritto su un registro e formalizzato con un voto, conta piuttosto parlarne, usare gli spunti che nascono dalle discipline per parlare di altro, cogliere le curiosità della classe che si ha davanti e approfondirle, confrontarsi, stimolare curiosità, far nascere dubbi (tanti) e dare certezze (pochissime).

In questo quadro imparare le poesie a cosa potrebbe servire? Insegnerebbe il rispetto? Svilupperebbe il senso critico? No, ovviamente no. Per fare quello serve altro e, diciamolo, non è sempre e solo la scuola a doversi fare carico di trovare una soluzione ai disagi che affliggono il mondo.

Imparare le poesie permette sicuramente di esercitare la memoria - che latita sempre di più anche a causa di una difficoltà di concentrazione legata alla gran quantità di stimoli a cui siamo continuamente sottoposti - ma soprattutto ci permette di dare vita a un serbatoio di bellezza, di musicalità, di immagini che - se comprese - potrebbero diventare nostre e a cui potremmo attingere quando ci mancano le parole per dare voce ai nostri pensieri.

Diamoci un compito.
Prendiamo un piccolo (ma gigantesco) libro di poesia come Cento poesia d'amore a Ladyhawke di Michele Mari e proviamo ad imparare una poesia al giorno, iniziando magari da questa:

Coincidere con chi si è diventati
credendo sia saggezza
è il più facile dei tradimenti
perché il suo castigo è nella pace.

Apriamo un libro di poesia, confidando nel caso (che non esiste), leggiamo le parole, diamo loro un senso - il nostro senso - e poi facciamole scorrere dentro di noi.
Seguiamo l'esempio di Carmen di Pietro (perdonatemi per il riferimento altissimo: qui si raggiunge una delle vette più alte), fine declamatrice che dà ad ogni poesia un'intonazione interrogativa in maniera assolutamente immotivata. 
Sempre rimanendo nei riferimenti di un certo livello, facciamo come Fiorello che ridiede vita a San Martino di Giosuè Carducci, musicandola in modo tamarro ma efficace.

Esercitiamo la memoria per avere uno strumento in più nella nostra cassetta degli attrezzi per affrontare la complessità del mondo ma soprattutto per sperare di ricordare un numero di telefono e di non morire come è accaduto a me nel sogno.

Fiorello, San Martino



 

19 gennaio 2025

Questo vento agita anche me

Generazione X e millennials, indossate le cuffie. È il momento di un quiz rivolto a voi.
(Musica tensiva, tipo "Chi vuol essere milionario?")
Ecco la domanda.
Come prosegue il famosissimo verso "Amor, ch'a nullo amato perdona"?
1. mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m'abbandona
2. porco cane
3. dolce un po' salato
La uno, la due o la trèèèèè? (Potrei sfoggiare la mia perfetta imitazione di Mike Bongiorno, ma non lo farò).

Tutta questa inutile cialtronata serve solo per tradurre in parole il pensiero che faccio ogni volta che mi tocca la fortuna e il privilegio di spiegare il quinto canto dell'Inferno: rileggo le tre famosissime terzine che iniziano con Amor e, inevitabilmente, quando arriva quel verso penso a Jovanotti che qualche anno fa (più di trenta a dire il vero) decise di citare il verso dantesco aggiungendo porco cane, creando così una generazione di studenti che credeva di trovare quella aggiunta anche nelle paludatissime versioni della Commedia, salvo poi scoprire con enorme delusione che il verso si concludeva in modo diverso.
Dopo aver fatto questo indispensabile e inevitabile pensiero, torno alla lettura e rifletto sulla storia raccontata da quei versi immortali.

Rifletto sulla definizione che Dante dà dei lussuriosi: sono coloro che la ragion sommettono al talento, ovvero coloro che sottomettono la ragione all'istinto, si fanno guidare da quest'ultimo mettendo da parte quello che, secondo il poeta, è il dono più grande che Dio abbia fatto all'uomo, ovvero la capacità di ragionare.
Rifletto su questo e, mentre ne parlo con le mie ragazze e i miei ragazzi, nel silenzio irreale che cala nella classe, miracolosamente sospesa nell'attesa di capire qualcosa in più di queste parole (sono questi i miracoli della poesia), sento distintamente il rumore dei brividi che percorrono il mio corpo.
E mi chiedo: come si può amare se non si mette a tacere la ragione? Amare è un atto di fede: ci si affida, appunto, all'altra persona, si mettono sul tavolo le proprie debolezze, il proprio modo di essere, le proprie fragilità. 
Andiamo nudi incontro all'altro che non sappiamo veramente chi sia: è un'utopia conoscere a fondo gli altri e non è possibile escludere con ragionevole certezza che nascondano un'arma potenzialmente letale.
Eppure lo facciamo ugualmente.
Scommettiamo, azzardiamo, non valutando con attenzione le conseguenze delle nostre azioni. Ma d'altra parte, se le valutassimo, se mettessimo su una bilancia i pro e i contro non sarebbe più amore ma economia. E l'economia e l'amore non vanno d'accordo.

Penso al furor che secondo i poeti latini (penso a Virgilio e a Orazio innanzitutto, ma la lista sarebbe lunghissima) annebbia la mente di chi ama: quello che travolge Didone innamorata di Enea e suicida a causa della sua partenza voluta dal fato, quello che Euridice rimprovera ad Orfeo che si gira durante il tragitto di ritorno dagli Inferi per paura di averla persa una seconda volta dopo essere riuscito - grazie alla poesia - a strapparla miracolosamente alla morte.
Secondo gli antichi, amore è pazzia, è mancanza di lucidità.
Eppure come si fa a non provare empatia per la regina di Cartagine, sedotta e abbandonata, o per Francesca, che con la sua figura dolce e gentile si prende la scena raccontando di quell'amore travolgente per Paolo, che si limita a piangere (eh, come al solito gli uomini... è stato il commento a mezza voce che ho sentito dalle retrovie)?.
Il vento li travolge, li sbatte di qua e di là e la leggerezza dei movimenti che associamo inconsciamente a qualcosa di positivo qui diventa un elemento negativo, di maggiore pena.

Un posto in questo girone potrebbe averlo indubbiamente una delle figure magistralmente disegnate dalla penna di Fabrizio de André che nel 1966 scriveva questo:

Un uomo onesto, un uomo probo
s'innamorò perdutamente
d'una che non lo amava niente.
Gli disse portami domani
gli disse portami domani
il cuore di tua madre per i miei cani.
Lui dalla madre andò e l'uccise
dal petto il cuore le strappò
e dal suo amore ritornò.

Non era il cuore, non era il cuore
non le bastava quell'orrore
voleva un'altra prova del suo cieco amore.
Gli disse amor se mi vuoi bene
gli disse amor se mi vuoi bene
tagliati dei polsi le quattro vene.
Le vene ai polsi lui si tagliò
e come il sangue ne sgorgò
correndo come un pazzo da lei tornò.

Gli disse lei ridendo forte,
gli disse lei ridendo forte,
l'ultima tua prova sarà la morte.
E mentre il sangue lento usciva
E ormai cambiava il suo colore,
La vanità fredda gioiva,
Un uomo s'era ucciso per il suo amore.

Fuori soffiava dolce il vento
ma lei fu presa da sgomento
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato
quando a lei niente era restato
non il suo amore non il suo bene
Ma solo il sangue secco delle sue vene.

Se l'uomo probo di cui si parla nella Ballata dell'amore cieco avesse usato la ragione certamente la storia non avrebbe avuto questo epilogo; il fatto, però, che lui muoia contento e innamorato segna il suo riscatto, soprattutto nei confronti della donna che, dalla sua morte, non ricava assolutamente nulla, se non il sangue secco delle sue vene.
Probabilmente in questo momento sarà trascinato dal vento insieme a Semiramide, Cleopatra, Elena, Achille, ma me lo immagino con un sorriso stampato sulle labbra. E credo non ci sia vittoria più grande.



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