27 ottobre 2024

I migliori anni della nostra vita?

Avrei dovuto fare una statistica fin da quando, vent'anni fa, ho messo piede in un'aula dirigendomi per la prima volta verso la cattedra e non verso i banchi.
Fare un segno su un foglio per ogni volta che in un tema scritto da un adolescente ho letto la frase "Quelli che sto vivendo sono gli anni migliori della mia vita".
Quest'unico foglio si sarebbe moltiplicato per dieci, cento, mille: ne sarei sommerso.
Eppure questa è una frase senza senso e aberrante:  l'altro giorno ho provato a farlo notare a una mia studentessa che, per tutta risposta. mi ha guardato con gli occhi sgranati come se stessi ballando la Salsa in mutande nel corridoio della scuola.
Qualcosa mi ha fatto percepire che non l'ho convinta.

Proviamo a ragionarci a mente fredda.
Posso dire che un cibo è migliore di un altro solo dopo averli assaggiati entrambi; posso dire che una città è più bella di un'altra solo dopo averle visitate entrambe.
Penso che sia davvero deleterio, nel momento in cui si sta vivendo una qualunque esperienza, pensare che non ce ne possa essere una migliore nella propria vita: è come segnare un limite - inesistente - oltre il quale non si potrà più andare.
Se poi - come spesso accade - sono i genitori ad inculcare questa idea nei figli, credo che il danno sia ancora più grande.
Se poi questo ci viene detto in un momento traumatico come l'adolescenza, tutto peggiora ulteriormente. 

Non so voi, ma io ho un ricordo terribile del periodo tra gli 11 e i 16 anni: mi sentivo brutto, ero emarginato, evitavo contatti con i miei coetanei (e a ragione, dato che da loro ricevevo offese e poco altro) eppure dentro di me percepivo una grande voglia di vivere, di essere, di esistere, che, però, era destinata a rimanere inespressa. 
Se mamma e papà mi avessero detto: "Goditi questi anni perché saranno i migliori della tua vita" credo che li avrei guardati esattamente come mi ha guardato l'altro giorno la mia alunna.

Sì, è vero, sono gli anni in cui non si ha la preoccupazione del lavoro; ma noi non più adolescenti siamo davvero sicuri che lo studio, la scuola siano, per le ragazze e i ragazzi, fonte di minore angoscia di quanto non lo sia per gli adulti la propria occupazione?
Davvero pensiamo che sentire di avere le ali e non saperle o poterle usare sia meno frustante di percepire che le proprie ali non sono più forti come un tempo?
È più angosciante l'idea della bolletta da pagare o provare turbamenti o vere e proprie sofferenze, parlarne con altri e sentirsi dire semplicemente passerà come se davvero il tempo curasse le ferite e non si limitasse a ricoprirle di polvere fino a che non le vediamo più?

Nella retorica degli anni migliori, tutta questa sofferenza adolescenziale che credo chiunque di noi provi o abbia provato si troverebbe a coincidere - in maniera palesemente stridente - con l'idea secondo cui quella che si sta vivendo in quel momento è la primavera della vita, preparazione all'estate - il momento del massimo godimento - seguita poi inevitabilmente dall'autunno - la vecchiaia - e la morte, l'inverno.
Solo che, come ci insegna il poeta latino Orazio, gli uomini  - a differenza della natura - non rinascono dopo l'inverno ma sono destinati ad essere pulvis et umbra, polvere ed ombra (la bellissima ode IV, 7 si può leggere qui e vi consiglio di farlo, qualora non la conosciate).

Trovo questa una visione della vita piuttosto disperante, ma si può provare a cambiare punto di vista. 
Gli anni della adolescenza non sono i migliori ma sono quelli in cui tutte le possibilità sono aperte e durante i quali si può provare a disporre a proprio piacimento i pezzi sulla scacchiera o almeno avere l'illusione di poterlo fare.
Ho un'altra convinzione.
Si può continuare a crescere e a fiorire sempre, anche in momenti in cui apparentemente tutto tace, sembra senza speranza e destinato irrimediabilmente alla fine: grazie a questo suo potere, l'uomo può addirittura elevarsi al di sopra della natura e quasi ridersene perché, così facendo, non è il tempo a dettare i cicli della sua vita ma è l'uomo stesso a riportare le lancette sullo zero e a far ripartire il cronometro ogni volta che vuole. Se lo vuole.

Franco Battiato, Quand'ero giovane


20 ottobre 2024

Anche Dante aveva paura

Per un attimo mi sono sentito il prof. Keating - per intendersi, Robin Williams in "L'attimo fuggente" - ma in versione orecchiette e cime di rapa.
L'altro giorno avevo in programma di spiegare il secondo canto dell'Inferno e, come sempre, il giorno prima, preparando la lezione, mi interrogavo su come avrei potuto iniziare.
Sì, perché la cosa più difficile è attirare l'attenzione delle ragazze e dei ragazzi che hai davanti, che sono lì ma che palesemente vorrebbero essere altrove, che hanno appena letto un messaggio che li ha resi tristi o felici, che hanno appena incrociato il proprio sguardo con quello della persona che occupa i loro pensieri, che stanno ancora cercando di capire la spiegazione appena fatta da chi c'è stato prima di te o che stanno pensando alla verifica che avranno all'ora dopo la tua.
Non basta dire "A me gli occhi, please" per attirare gli sguardi di nutriti gruppi di adolescenti. Non ha mai funzionato e non funzionerà mai, accettiamo la cosa con serena rassegnazione.
Entro in classe, sondo il terreno con gli occhi, mi informo su come stanno, raccogliendo più che altro silenzio, e poi scrivo sulla lavagna una sola parola: PAURA.

"A voi cosa fa paura?"
Una voce coraggiosa si leva in fondo a destra: ho paura di non realizzare niente nella vita.
Poi scopro che c'è chi ha paura dei ladri, chi ha paura del futuro, chi ha paura dei ragni.
"E a lei cosa fa paura?" mi chiedono.
Il professor Keating del Tavoliere non aveva considerato l'ovvio, cioè che qualcuno gli avrebbe posto questa domanda.
Non posso chiederlo a loro senza dirglielo: allora dichiaro la mia paura, sinceramente, senza troppi fronzoli.
Loro ascoltano, rimuginano e poi possiamo iniziare la lezione.

Anche Dante aveva paura, paura di non essere all'altezza di un compito così importante come quello a cui era stato chiamato: compiere una simpatica escursione tra i dannati per vedere quale orrenda fine tocca a chi pecca e non si pente, poi arrampicarsi tipo Reinhold Messner sul monte del Purgatorio per vedere quelli che si sono comportati un po' meglio, infine trovare Beatrice e subire una cazziata colossale prima di salire tipo razzo nell'Empireo per vedere il Boss (no, non Bruce Springsteen, proprio il Boss Boss).
Ma la cosa non era finita qui: una volta finito il viaggio, avrebbe dovuto raccontare tutto ciò che aveva visto per mostrare ai suoi contemporanei la via della salvezza e, collateralmente, essere odiato da generazioni di studenti costretti a studiare controvoglia il frutto di questo suo lavoro che talvolta sembra l'opera di un fondamentalista cristiano sotto effetto di qualche droga pesante.

Stupefacenti a parte, il secondo canto dell'Inferno mi piace particolarmente perché più che altrove in questi versi emerge il lato umano di Dante che ragiona con Virgilio e con noi suoi lettori di qualcosa che ci riguarda tutti.

"S’i’ ho ben la parola tua intesa",
rispuose del magnanimo quell’ombra,
"l’anima tua è da viltade offesa; 

la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.

Sono queste le parole che la magnanima guida rivolge a Dante quando quest'ultimo esprime il suo senso di inadeguatezza per il viaggio che sta per intraprendere: è la viltade che colpisce la sua anima, quel vizio che ingombra l'omo  e gli impedisce di compiere le nobili azioni a cui pure sarebbe chiamato, ottenendo lo stesso effetto che ha sugli animali il falso veder ovvero la sensazione di aver visto qualcosa che non c'è. La paura ci fa tornare indietro, ci fa perdere quella spinta che ci porterebbe su strade nuove, ci costringe a rimanere in situazioni che non ci piacciono e ci impedisce di andare a cercare la soluzione.

Ma come si fa a superare la paura? Sono le parole di Beatrice - riportate sempre dal solito Virgilio - a guidarci in questo senso.
Tu, Dante, stai compiendo questo viaggio - gli spiega il suo maestro - perché quella donna che hai amato in vita e che ormai da 10 anni non c'è più, vedendoti in difficoltà, mossa dall'amore, è venuta da me, dal Paradiso all'Inferno, a chiedere di portarti aiuto.
A lei Virgilio chiede come mai non abbia avuto paura di compiere questa discesa vertiginosa dal regno della salvezza al regno del peccato.

"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch’i’ non temo di venir qua entro. 

Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose. 


Bisogna temere solo le cose che ci possono nuocere, non le altre perché quelle non fanno paura.

Apparentemente sembra un'ovvietà sconvolgente, utile come la ricetta del pollo alla piastra di Elisabetta Canalis (ai pochi eretici che non sanno a cosa io mi stia riferendo, dico pentitevi e informatevi cliccando qui); se invece ci si sofferma un attimo, le parole di Beatrice (che poi sta citando Aristotele) ci aprono un mondo. 
Non dobbiamo fare come gli animali che, presi dalla paura, tornano indietro per un falso veder; non lasciamoci sopraffare ma piuttosto usiamo la razionalità, anche se è molto difficile quando si è invischiati in questo sentimento.
Ciò che ci blocca in un punto, che ci impedisce il cammino è qualcosa che ha davvero il potere di farci male? È qualcosa che davvero non possiamo affrontare? Oppure a farci stare fermi è solo la nostra pigrizia, il nostro non voler uscire dalla comfort zone, il nostro volerci crogiolare nel dolore che in fondo un po' ci piace?

Spoiler: alla fine Dante supera la sua paura e inizia il viaggio anche perché altrimenti la Divina Commedia sarebbe finita qui
E comunque no, non ve lo dico qual è la mia paura.

Lucio Dalla. Futura
 

13 ottobre 2024

I professori non chiedevano mai se eravamo felici

Pensate ai vostri genitori: c'è qualcosa per cui li vorreste ringraziare?
Io non ho alcun dubbio: per avermi circondato fin da piccolo di musica.
No, non è una famiglia di musicisti, la mia: i miei non hanno mai suonato uno strumento, mio padre cantava (e forse canta ancora, non so, dovrei indagare) come uno dei fratelli Gibb o se preferite come un Cugino di Campagna e la voce di mia madre ha la potenza di Viola Valentino e l'estensione di Amanda Lear.
A casa mia, però, si è sempre respirata musica: De André, Janis Joplin, Jacques Brel, Gianna Nannini (la mamma); Battiato, Mannoia, Pino Daniele (il papà).
Avevo circa 8 anni quando in casa iniziò a circolare un vinile nuovo: in copertina c'era un ragazzo con dei riccioli neri e, messo sul giradischi, suonava in modo diverso dalle altre cose sentite fino a quel momento.
Un forte accento bolognese, argomenti nuovi, musica nuova. Era Luca Carboni.

Lo confesso: per un po' ce l'ho avuta con lui. Con lui e con Raffaella Carrà, Suzanne Vega e Silvia Salemi. Aggiungo anche Povia alla lista (ma lui è detestabile per altre mille ragioni).
Cosa li accomuna? Il fatto di aver usato il mio nome in canzoni di successo, consegnandomi così, agnello sacrificale. a chi cercava qualche pretesto per bullizzarmi. 
Luca, cosa ti è successo?
My name is Luka. I live on the second floor.
A casa di Luca facciamo le tre.
Luca era gay e adesso sta con lei.
Ma il primo ricordo è proprio legato a Luca Carboni e al suo Luca si buca ancora.
Un incubo.

L'altro giorno ho riascoltato Silvia lo sai, la canzone di Luca Carboni da cui è tratta la frase incriminata e, a distanza di anni, ho riscoperto una canzone che trovo bella e significativa.
Ma la mia attenzione  - deformazione professionale - è stata attirata da una frase in particolare.

I professori non chiedevano mai se eravamo felici.

È mio compito chiedere alle ragazze e ai ragazzi se sono felici?
Oppure devo limitarmi a spiegare declinazioni latine, coordinate e subordinate, Leopardi e la guerra del Peloponneso? È questo ciò per cui vengo pagato, è questo il mio ambito di specializzazione. 
Se glielo chiedo, sono pronto a ricevere una risposta negativa e ad accogliere le loro storie?
Ma soprattutto ho davvero gli strumenti per comprenderli ed aiutarli in qualche modo?
Oppure rischio di fare danni dando loro suggerimenti basati sull'istinto e sulla mia idea di essere umano più che sulla competenza?
Però mi domando anche: si è davvero docenti mettendo a disposizione generosamente tutto il proprio sapere e la propria competenza, senza però mai mettere realmente in gioco sé stessi e la propria umanità?

Ognuno ha le proprie risposte a questa domanda, tutte legittime e tutte giuste a proprio modo.

Però ogni tanto rimpiango i giorni in cui non mi ponevo tutte queste questioni e la mia unica preoccupazione era, novello Odisseo, girare per casa con le mani sulle orecchie evitando il canto di mio padre e di mia madre per non infrangermi sugli scogli.

Luca Carboni feat. Franco Battiato, Silvia lo sai



06 ottobre 2024

Fare spazio (un piccolo apologo)

Non sarebbe mai successo niente.
La libreria che ho alle mie spalle non avrebbe ceduto nonostante il peso che era costretta a portare.
Non sarei morto schiacciato dai libri: me la immagino molto meno epica, la mia morte.
Eppure, nei rari momenti di silenzio, quando mi sveglio presto e tutto tace, devo aver sentito qualche scricchiolio nello studio.
Magari non c'è stato, l'ho solo immaginato, veniva da lontano. Sta di fatto che ho deciso di voltarmi, guardare dietro di me e affrontare la questione a viso aperto: era necessario fare pulizia e il momento non poteva più essere rimandato.

Ho assistito alla lotta di due demoni dentro di me: da una parte l'accumulatore seriale di volumi saggio dati dai rappresentanti di libri scolastici gridava: "Tutto questo potrebbe servirti, anche se è ancora incellophanato, non lo guardi da 15 anni e forse hai solo fatto finta di sfogliarlo quando te lo hanno dato"; dall'altra il pulitore furioso ribatteva: "Scegli tu: vuoi morire schiacciato dal peso della libreria? Soffocato dalla polvere accumulata? O forse preferisci sprofondare nell'appartamento che si trova sotto il tuo, visto che il pavimento prima o poi cederà? Forza! Selezionare! Pulire! Buttare!"
Ero lì in mezzo a questi due fuochi, quando alla fine, quasi come un automa, senza troppi ragionamenti, ho deciso che il pulitore aveva ragione: dovevo intervenire.

All'inizio è stato facile: tutto il fardello inutile si toglie senza problemi.
I volumi mai consultati, quelli che ho usato e per cui ho maledetto il giorno in cui me li sono trovati davanti, le edizioni più vecchie di libri che cambiano due pagine e si spacciano per nuovi sono stati messi senza alcun dubbio nella pila delle cose da buttare.

Il problema è venuto dopo, quando è toccato agli altri: il libro che ricorda una classe a cui ho voluto particolarmente bene, quello che ho usato il primo anno in cui ero in una scuola di cui ho un ricordo piacevole, quell'altro che è stato mio supporto nei momenti in cui mi è sembrato di fare delle lezioni buone.
E poi pagine e pagine di appunti, schemi, scritti alcuni in bella grafia e curati (quelli dei primi anni), altri solamente abbozzati su fogli improbabili e vergati in modo incomprensibile anche al farmacista più esperto. E altri fogli ancora con cognomi di studentesse e studenti con accanto voti, annotazioni o con liste della spesa di un'altra vita.

Il dubbio, in questi momenti, è stato forte: buttare o conservare? Trattenere o lasciar andare?
Pensiamo che i bei ricordi abbiano sempre bisogno di un supporto materiale per continuare ad esistere e riteniamo che, per liberarci dei brutti ricordi o dei fardelli che ci pesano sulle spalle, sia sufficiente eliminare ciò che di materiale ci fa pensare a loro. Non è vera né l'una né l'altra cosa.
La verità, però, è che fare spazio aiuta tanto: ci vuole motivazione, coraggio per decidere di privarsi di alcune cose che ci sono sembrate indispensabili e determinazione per lottare contro la frustrazione di non riuscire a venire a capo quando bisogna rimettere tutto in ordine.

Alla fatica fisica di mettere tutti quei libri nella macchina ha, però, corrisposto, la soddisfazione di buttarli in discarica uno ad uno, godendomi il momento, facendoli quasi volteggiare verso gli immensi contenitori bianchi per la carta, senza più guardarmi indietro, con la consapevolezza di una decisione ormai presa. 
E poi tornare a casa, con la macchina vuota e un po' impolverata. Guardare la libreria e rendersi conto di essere di fronte ad un nuovo inizio.

Come diceva Esopo, Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι (La favola dimostra che) è bello liberarsi dei pesi inutili, sia che riguardi la nostra libreria, sia  - e ancora di più -  che abbia a che fare con la nostra vita.

29 settembre 2024

Odi et amo

Odi et amo. Quare id faciam fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Spiegare due versi? E cosa ci vorrà mai? 
Non stai mica operando a cuore aperto.
Non stai mica passando la tua giornata in cantiere a spostare mattoni o a lavorare la terra sotto un sole cocente o sotto una pioggia incessante.
Non stai mica prendendo decisioni da cui dipende la vita di tante persone.
Eppure ogni volta che devo spiegare questo breve testo di Catullo (così come mi capita quando devo spiegare Dante o Leopardi o Montale) mi sento addosso responsabilità e fatica perché vorrei riuscire a far capire a chi in quel momento mi è davanti - e magari sta pensando alla sua vita al di fuori, alla maglietta che indosso, alla persona che spera di incontrare nei corridoi - quanto è importante quella poesia, quanto è profondo quel concetto, quanto ci possono aiutare quelle parole quando magari di parole non ne abbiamo per definire come ci sentiamo.

Già le prime due parole ci aprono un mondo. 
Odio e amo? In realtà no: anche se l'antitesi è apparentemente efficace, non è proprio questo ciò che voleva dire Catullo: amare in latino allude all'attrazione fisica per un'altra persona più che al sentimento (che si esprime con bene velle, cioè voler bene). Odio questa donna ma allo stesso tempo ne sono attratto fisicamente, non posso liberarmi dal pensiero di lei. 
Si potrebbe anche notare che manca completamente qualsiasi riferimento all'oggetto di questi sentimenti: tutto si concentra sul soggetto, le condizioni circostanti contano poco. Il poeta, dunque, parla di sé ma parla a donne e uomini di ogni tempo, lacerati da questa guerra interiore.

C'è qualcun altro in questa poesia: un interlocutore - non sappiamo chi sia - che cerca di ricondurre tutto alla razionalità: forse tu mi chiedi perché io faccia questo. C'è una ragione - chiede a Catullo - per questo stato di lacerazione emotiva in cui ti trovi per cui il corpo dice una cosa e il cuore ti porta altrove?

La risposta di Catullo è quella che darebbe chiunque: Nescio, ovvero Non lo so: l'unica cosa che lui sa è che questa cosa sta accadendo: è qualcosa su cui non si ha alcun potere. Leggiamo proprio l'impotenza di chi si trova in questa situazione: non è qualcosa che io faccio, qualcosa su cui io ho potere decisionale. È una cosa che avviene, che io subisco e significativamente fieri è la forma passiva del verbo fare in latino e significa sia accadere sia essere fatto. Ciò che accade è qualcosa che ci piomba addosso, qualcosa che non abbiamo voluto, è una situazione in cui ci siamo trovati e non sappiamo neppure noi come sia stato possibile.

Mi accorgo che sta accadendo - dice il poeta - ed excrucior.
La sensazione che emerge prepotente da questa parola non è tanto (e solo) quella di una sofferenza emotiva: anzi, la sofferenza è proprio fisica. Excrucior vuol dire sono crocifisso: innanzitutto dobbiamo liberare la nostra mente da ogni implicazione religiosa per il semplice motivo che Catullo vive prima dell'età cristiana; in secondo luogo va ricordato che, nel mondo romano, la crocifissione era una punizione piuttosto consueta e riservata agli schiavi.
Che cosa c'è, allora, in quel verbo? 
C'è l'idea della schiavitù d'amore (la mia pena è quella inflitta agli schiavi proprio perché avverto su di me il giogo della passione); c'è l'idea di una sofferenza fisica e allo stesso tempo di impotenza (le mani e i piedi inchiodati alla croce, oltre a far male, inibiscono qualunque possibilità di azione); c'è l'umiliazione di soffrire davanti a tutti (le crocifissioni avvenivano in pubblico; allo stesso modo Catullo non può nascondere lo stato di prostrazione psicologica al suo interlocutore che gli chiede come mai faccia questo).
C'è un modo per tradurre tutti questi significati in una parola sola? Probabilmente no.

In realtà in questo post avrei voluto parlare di due poesie di due miei autori-faro, ovvero Dino Buzzati e Franco Arminio, rispettivamente sull'odio e sull'amore, ma poi si è risvegliato il classicista che è in me e quindi niente: sarà per un'altra volta.


22 settembre 2024

Inferno

"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio"
Rileggo "Le città invisibili" di Italo Calvino per una cosa bellissima che farò da qui a qualche giorno e mi imbatto nel finale in questa frase.
E mi chiedo cosa sia l'inferno.

L'inferno non è quello di Dante, anche se è bellissimo perdersi nei gironi, nelle bolge, nelle storie degli ignavi, di Francesca e Paolo, di Pier delle Vigne, di Brunetto Latini, di Ulisse e Ugolino.
L'inferno sono gli altri, diceva Paul Sartre.
L'inferno sono le aspettative che ci creiamo sugli altri e che vengono disattese.
L'inferno è inseguire l'irraggiungibile perfezione.
Le fiamme dell'inferno ci lambiscono quando riempiamo fino all'orlo la nostra vita, non lasciando spazi vuoti per coltivare il silenzio, l'assenza, noi stessi e ciò che c'è di immateriale.
La ricerca dell'approvazione altrui a scapito di ciò che siamo veramente.
La perenne proiezione verso il futuro.
Il continuo rivolgersi al passato.
La sofferenza per ciò che avremmo voluto che fosse e non è stato.
La certezza che ciò che vorremo non sarà.
Tutto questo è inferno.

Ma Calvino ci indica una strada: non assuefarci al nostro inferno, ma conoscerlo: se vuoi sapere quanto buio hai intorno - scrive - devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane. E cosa sono queste fioche luci lontane?
Ciò che non è inferno.
Le persone che ci sono sempre anche quando non sono presenti fisicamente.
Quelle che accolgono il nostro modo di essere e non giudicano.
Le persone con cui possiamo condividere i nostri malesseri.
Vivere saldamente nel presente, l'unico tempo su cui abbiamo potere.
Godere dei sorrisi, degli abbracci, del silenzio.

Siamo in mezzo alle fiamme con un estintore in mano.




15 settembre 2024

Ventuno prime volte

Ci risiamo.

Era il 2004: varcavo per la prima volta un’aula scolastica e incontravo una classe che avrei avuto davanti per tutto l’anno.

È il 2024: il rito si ripete sempre uguale per la ventunesima volta e la sensazione è esattamente la stessa. Lingua felpata - in perfetto stile Fantozzi - sudorazione fuori controllo e ansia gioiosa (o gioia ansiosa): cosa racconterò a queste 50 pupille che mi fisseranno? Preparo tutti i miei bei discorsi su libertà di parola, rispetto, gentilezza, partecipazione che tanto so perfettamente che non pronuncerò mai.

Penso ai miei studenti che affronteranno un ennesimo primo giorno, a quelli più piccoli che entreranno per la prima volta nella scuola dei grandi, ai loro sentimenti, ai loro desideri, a cosa vorrebbero, a cosa vorrebbero evitare; penso a chi fa già il conto alla rovescia per il 10 giugno e a chi, invece, trova nella scuola un rifugio, un conforto, un’occasione di riscatto. Penso anche alle colleghe e ai colleghi che sono alla prima esperienza: da una parte provo invidia per la bellezza di un nuovo inizio, penso che se fossi in loro potrei evitare errori che ho fatto in passato per l'inesperienza (bilanciata dell'entusiasmo), ma dall'altra non so se vorrei essere al loro posto. Forse sì.
Penso anche a chi non sa ancora se, dove e quando lavorerà quest'anno: gli ostacoli da superare per diventare insegnanti sono sempre più alti (e talvolta insensati) e la elefantiaca burocrazia italiana ci mette del suo. Delle due, l'una: o si arriva a scuola motivatissimi, o ci si arriva con l'affabilità di Jack Nicholson in Shining.

I miei studenti, dicevo. Li posso vedere tutti in viso, ma spesso e volentieri le loro fragilità rimangono ugualmente nascoste, segrete, sconosciute anche a loro stessi, salvo poi esplodere in modi e tempi inaspettati. E mi chiedo se sarò pronto ad accoglierli, ad aiutarli, a spronarli; se sarò in grado di mostrare loro, a tutti loro, la bellezza del sapere, del confronto, anche dello scontro purché rispettoso e, accanto a questo, la ricchezza della letteratura che parla di noi anche quando ci sono millenni che ci separano da ciò che leggiamo. Se riuscirò a convincerli che, in fondo, ma proprio in fondo, la scuola non è cattiva, è che la disegnano così. 

E poi ci sono i programmi, la burocrazia, gli adempimenti, le cose che non si possono rimandare, quello che non si vuole fare ma si deve, quello che si vorrebbe fare ma non si può.

Tutto questo sembra avere il sopravvento, ma lo nascondo dietro il “Buongiorno” migliore che io riesca a pronunciare.

Un nuovo anno, una nuova occasione per imparare e cercare di fare (del) bene.

(Per i miei lettori più attenti: sì, lo so che non si fa. È sbagliato riprendere post vecchi, cambiare qualcosa e spacciarli per nuovi. Per chi non se n'è accorto: fate finta di non aver letto quello che ho appena scritto)

Niccolò Fabi, Costruire

I migliori anni della nostra vita?

Avrei dovuto fare una statistica fin da quando, vent'anni fa, ho messo piede in un'aula dirigendomi per la prima volta verso la catt...