17 novembre 2024

Diverse lingue, orribili favelle

L'altro giorno leggevo in classe i Promessi Sposi quando, ad un certo punto, incappo nella parola "creditore": per puro scrupolo, chiedo ai malcapitati venticinque lettori (sono diciannove, ma Manzoni non lo deve sapere) se conoscano il significato di questo termine.
Improvvisamente trentotto occhietti impauriti si bloccano su di me come se avessi chiesto la classifica finale di Sanremo 1974 o una panoramica sulla letteratura bulgara del diciannovesimo secolo.
Nessuno conosceva il significato di questo termine.
A quel punto le reazioni possibili erano tre: uscire dall'aula sbraitando come Tarzan nella foresta, aprire un profilo LinkedIn per cercare lavoro come lavapiatti nelle isole Fær Øer oppure mantenere la calma e spiegare loro il significato del termine.
Mancandomi le physique du rôle per vagare nei corridoi della scuola aggrappandomi alle liane e non avendo contezza della presenza di ristoranti nel noto arcipelago situato tra Norvegia e Islanda, ho scelto la terza opzione, con non poco sgomento.
Questa cosa, però, ha continuato a ronzarmi in testa.
Com'è possibile che non si conosca un termine che ovviamente non entra nella comunicazione quotidiana di persone adolescenti ma che pure - credo - sia una parola piuttosto diffusa?
La sensazione, ormai sempre più netta, è quella della presenza di due lingue, distinte e separate, in cui la discriminante non è l'origine geografica o la classe sociale di appartenenza, quanto piuttosto l'età.

Immagino lo sforzo titanico a cui si devono sottoporre ragazze e ragazzi che cercano di usare - com'è normale che sia, com'è sempre stato e come sempre sarà - il linguaggio che vogliono gli adulti nel momento in cui devono fare un'interrogazione o devono scrivere un compito, raggiungendo talvolta risultati ai limiti del grottesco.
È esattamente la stessa cosa che facevo io quando dovevo tradurre le versioni di greco ed usavo un vocabolario che ancora oggi si usa - il famigerato Rocci, chi ha fatto il classico lo sa - ma che ai tempi proponeva traduzioni dei lemmi greci in un italiano incomprensibile, ma che mi affascinava.
Usando imperocchè o fo da mallevadore pensavo che le mie traduzioni sarebbero state più eleganti o almeno avrebbero dato l'impressione che avevo capito qualcosa di quel testo di Senofonte o del temutissimo Tucidide.

Solo dopo ho scoperto  - a mie spese - che le cose non stavano così.

Al momento della verifica, dicevo, gli studenti devono usare un linguaggio che non appartiene loro, che fanno fatica a padroneggiare, abituati ad esprimersi in un modo non migliore, non peggiore ma semplicemente diverso rispetto a quello degli adulti. 

È pacifico il fatto che termini come boomer, cringiare, snitchare, chillare, bro, giga chad non sono utilizzabili mentre si parla dello Stilnovo o della poesia ermetica, mentre si raccontano le imprese di Orlando o i dolori di Jacopo Ortis.
È altrettanto pacifico che non è accettabile il fatto che si parli di Accademia della Carruba (invece di accademia della Crusca) e si confonda giudizioso con giudicante o caffetteria e caffettiera.
Trovo, però, incomprensibile lo sdegno, manifestato solitamente con atteggiamenti teatralmente tragici, da parte di colleghe e colleghi - ma anche di adulti in generale - che ritengono inaccettabile questo imbarbarimento della lingua che chissà dove ci porterà, signora mia.

Accettare il cambiamento, sedersi - metaforicamente - ad un tavolo da cui si lasciano lontani pregiudizi e pretese superiorità per confrontarsi sulla lingua e provare a trovare un terreno comune, tramite di comunicazione intergenerazionale.
Io, adulto, mi impegno a spiegare parole che appaiono desuete o difficili in modo che possano essere comprese da chi a quelle parole non associa alcun significato; tu, adolescente, ti sforzi di spiegarmi con parole per me comprensibili la tua lingua, così da poter facilitare la comunicazione, anche ad un livello più profondo. E no, non basta leggere per migliorare la lingua se non si è curiosi di scoprire il significato delle parole che non si conoscono. E la curiosità non nasce spontanea, ma ha bisogno di essere stimolata costantemente.

Poi, ognuno può tornare alla propria lingua, arricchito, però, dalla conoscenza della lingua dell'altro, nella consapevolezza che ogni sistema linguistico è espressione di una cultura e di un modo particolare, non migliore né peggiore, di vedere le cose.

10 novembre 2024

La società degli incompresi

Come mi capita spesso, quando non trovo le parole, sono le parole a trovare me.

L'incomprensione regna sovrana. 
Ognuno di noi si sente capito da pochissime persone e solo ogni tanto. 
Anche quelli che ci capiscono, non sempre hanno voglia di farlo. 
Tutta questa enorme massa di comunicazione e tentativi di farci capire, di farci avvistare, alla fine si conclude con la consapevolezza che è difficilissimo essere compresi e ancora di più avvistati. 
Le incomprensioni riguardano sia la Rete sia la cosiddetta realtà. La gente non ci capisce perché è nervosa, ha troppi fuochi accesi, nessuno può essere esaminato con attenzione benevola. Ognuno di noi è condannato per direttissima o rinviato a giudizio. Nessuno è disposto a giurare sulla nostra innocenza, nemmeno la persona che ci ama.
L'età dell'incomprensione produce depressioni e malattie fisiche. [...] Negli ospedali c'è il reparto per i cardiopatici, non c'è il reparto per gli incompresi. 
Sarebbe ora di istituire una sorta di pronto soccorso psicologico in cui poter andare e dire: nessuno mi capisce, provate a farlo voi. 
Tutte le discussioni che facciamo sull'emergenza climatica e su altri disastri provocati dall'uomo sono destinate a rimanere senza risposta se non ci occupiamo dello stato delle anime. 
Primo punto: le persone hanno il diritto di essere almeno vagamente capite per quelle che sono. Sembra facile e invece non accade quasi mai. 
Anche nelle scuole bisognerebbe occuparsi di questo problema: l'ora di religione non riscuote molto interesse, ci vorrebbe un tempo in cui sin da bambini si facciano esercizi per capire ed essere capiti.
Non si tratta di accrescere i nostri saperi, ma la nostra comprensione ed empatia.
Gli altri non sono morti e invece noi ci comportiamo come se questo fosse già accaduto, già assodato.

Le parole di Franco Arminio sono, come sempre, balsamo e sale sulle ferite.
Rifletto seriamente sul presente e sul futuro, su quello che vorrei fare e vorrei essere e su quello che sono e faccio.
Ultimamente ho la sensazione di infilare azioni e parole sbagliate come perline in un braccialetto, con metodo e concentrazione, e di errare - nella duplice accezione di sbagliare e di vagare - senza un fine e senza una fine. 
Mi sembra di non saper fare anche quello che fino a ieri mi riusciva e di non avere più certezze su quello che avevo conquistato con fatica.
Accolgo lacrime ma penso di non avere gli strumenti per farlo e ripenso, sempre più convinto, alla necessità di un fronte comune per la difesa della parlarsi di persona: stiamo perdendo l'abitudine di guardarci negli occhi, preferendo sempre di più la via facile della comunicazione a distanza, anche con le persone a cui vogliamo bene. Ci schermiamo, sentiamo sempre di aver bisogno di protezione e non capiamo che lo spazio vuoto che noi creiamo e che ci fa sentire sicuri diventa spesso una voragine, impossibile da attraversare. 
Infine arriva la razionalità che mi dà una pacca sulla spalla e mi dice che è tutto a posto, che è tutto risolvibile, che sono tante piccole cose che si possono mettere a posto: non sempre ci credo, ma annuisco.

Niccolò Fabi, Offeso

03 novembre 2024

L'amuleto

Di moltissimi momenti della mia infanzia e della mia adolescenza non conservo alcuna traccia. 
Uno, però, si è affacciato l'altro giorno, prepotente e immotivato. alla mia mente: sto ancora cercando di capire il perché ma credo che lascerò perdere, perché è bello lasciarlo galleggiare così.

C'era un'aria fredda, quel giorno. Solo qualche anno dopo avrei scoperto che il freddo della mia Puglia non era freddo, ma a 15 anni non potevo saperlo.
Due colori: il grigio e il blu. 
Il grigio chiaro e il grigio scuro di una camicia che avevo ereditato da mio fratello: una camicia che ricordo di una bruttezza imbarazzante ma che indossavo con molto orgoglio perché mi faceva sentire grande.
Il blu scuro del vocabolario di greco, il famigerato Rocci: pesava, a portarlo in mano, forse ancora di più che mettendolo nello zaino. Ma mostrarlo al mondo era un segno di riconoscimento, era l'attestazione del fatto che frequentavi il classico e che quel giorno avresti avuto la versione: come a dire "ho una pistola e non ho paura di usarla".

In realtà, quel giorno di paura ne avevo e anche parecchia.
Sarà che i miei occhi insicuri andavano poco d'accordo con i caratteri minuscoli di quel vocabolario.
Sarà che avevo - ed ho ancora - una tendenza alla cialtroneria che prima o poi arriva sempre a chiedermi il conto.
Sarà che non ho mai avuto - e non ho ancora - consapevolezza di ciò che posso fare.
Sta di fatto che ero meno tranquillo del solito.

Ricordo ancora il gesto di mia madre che mi passa, quasi di nascosto, una piccola fodera di plastica trasparente, di quelle che servivano per proteggere la carta di identità, al cui interno era conservato un foglietto a quadretti un po' ingiallito. 
Questo è un amuleto - c'era scritto - non aprirlo se non vuoi che perda il suo potere.

Non ho assolutamente memoria di come sia andato quel compito, ma ricordo distintamente la sensazione di potere con cui sono uscito di casa.
Ho conservato quel foglietto religiosamente chiuso in un cassetto per mesi, temendo che davvero potesse perdere il suo potere se ne avessi letto il contenuto.

Poi un giorno non ce l'ho fatta e la curiosità ha avuto la meglio.

L'ho estratto dalla sua custodia, l'ho aperto con delicatezza e l'ho letto. 
Gli occhi, alla lettura di quelle parole, scritte con la grafia ampia e talvolta spigolosa di mia madre, mi si sono inumiditi. 
Con gli anni ho scoperto un'altra cosa: lo svelamento non ha fatto perdere all'amuleto il suo potere, ma, anzi, lo ha reso ancora più forte. Mi si affaccia alla memoria quella scritta e mi accarezza, ora come allora.

I genitori sono la mano, forte e accogliente talvolta, insicura e ruvida altre volte, su cui si poggiano farfalle.
Basta poco a danneggiarne le ali: un gesto avventato, anche involontario, un gesto di stizza, le dita che si stringono sul palmo in un breve accesso di rabbia.
Basta poco, un gesto di attenzione, uno sguardo amorevole, una carezza appena accennata, a far sì che la farfalla possa volare sicura, allontanarsi dalla mano ma senza dimenticarla mai.

Jacques Brel, Ne me quitte pas

27 ottobre 2024

I migliori anni della nostra vita?

Avrei dovuto fare una statistica fin da quando, vent'anni fa, ho messo piede in un'aula dirigendomi per la prima volta verso la cattedra e non verso i banchi.
Fare un segno su un foglio per ogni volta che in un tema scritto da un adolescente ho letto la frase "Quelli che sto vivendo sono gli anni migliori della mia vita".
Quest'unico foglio si sarebbe moltiplicato per dieci, cento, mille: ne sarei sommerso.
Eppure questa è una frase senza senso e aberrante:  l'altro giorno ho provato a farlo notare a una mia studentessa che, per tutta risposta. mi ha guardato con gli occhi sgranati come se stessi ballando la Salsa in mutande nel corridoio della scuola.
Qualcosa mi ha fatto percepire che non l'ho convinta.

Proviamo a ragionarci a mente fredda.
Posso dire che un cibo è migliore di un altro solo dopo averli assaggiati entrambi; posso dire che una città è più bella di un'altra solo dopo averle visitate entrambe.
Penso che sia davvero deleterio, nel momento in cui si sta vivendo una qualunque esperienza, pensare che non ce ne possa essere una migliore nella propria vita: è come segnare un limite - inesistente - oltre il quale non si potrà più andare.
Se poi - come spesso accade - sono i genitori ad inculcare questa idea nei figli, credo che il danno sia ancora più grande.
Se poi questo ci viene detto in un momento traumatico come l'adolescenza, tutto peggiora ulteriormente. 

Non so voi, ma io ho un ricordo terribile del periodo tra gli 11 e i 16 anni: mi sentivo brutto, ero emarginato, evitavo contatti con i miei coetanei (e a ragione, dato che da loro ricevevo offese e poco altro) eppure dentro di me percepivo una grande voglia di vivere, di essere, di esistere, che, però, era destinata a rimanere inespressa. 
Se mamma e papà mi avessero detto: "Goditi questi anni perché saranno i migliori della tua vita" credo che li avrei guardati esattamente come mi ha guardato l'altro giorno la mia alunna.

Sì, è vero, sono gli anni in cui non si ha la preoccupazione del lavoro; ma noi non più adolescenti siamo davvero sicuri che lo studio, la scuola siano, per le ragazze e i ragazzi, fonte di minore angoscia di quanto non lo sia per gli adulti la propria occupazione?
Davvero pensiamo che sentire di avere le ali e non saperle o poterle usare sia meno frustante di percepire che le proprie ali non sono più forti come un tempo?
È più angosciante l'idea della bolletta da pagare o provare turbamenti o vere e proprie sofferenze, parlarne con altri e sentirsi dire semplicemente passerà come se davvero il tempo curasse le ferite e non si limitasse a ricoprirle di polvere fino a che non le vediamo più?

Nella retorica degli anni migliori, tutta questa sofferenza adolescenziale che credo chiunque di noi provi o abbia provato si troverebbe a coincidere - in maniera palesemente stridente - con l'idea secondo cui quella che si sta vivendo in quel momento è la primavera della vita, preparazione all'estate - il momento del massimo godimento - seguita poi inevitabilmente dall'autunno - la vecchiaia - e la morte, l'inverno.
Solo che, come ci insegna il poeta latino Orazio, gli uomini  - a differenza della natura - non rinascono dopo l'inverno ma sono destinati ad essere pulvis et umbra, polvere ed ombra (la bellissima ode IV, 7 si può leggere qui e vi consiglio di farlo, qualora non la conosciate).

Trovo questa una visione della vita piuttosto disperante, ma si può provare a cambiare punto di vista. 
Gli anni della adolescenza non sono i migliori ma sono quelli in cui tutte le possibilità sono aperte e durante i quali si può provare a disporre a proprio piacimento i pezzi sulla scacchiera o almeno avere l'illusione di poterlo fare.
Ho un'altra convinzione.
Si può continuare a crescere e a fiorire sempre, anche in momenti in cui apparentemente tutto tace, sembra senza speranza e destinato irrimediabilmente alla fine: grazie a questo suo potere, l'uomo può addirittura elevarsi al di sopra della natura e quasi ridersene perché, così facendo, non è il tempo a dettare i cicli della sua vita ma è l'uomo stesso a riportare le lancette sullo zero e a far ripartire il cronometro ogni volta che vuole. Se lo vuole.

Franco Battiato, Quand'ero giovane


20 ottobre 2024

Anche Dante aveva paura

Per un attimo mi sono sentito il prof. Keating - per intendersi, Robin Williams in "L'attimo fuggente" - ma in versione orecchiette e cime di rapa.
L'altro giorno avevo in programma di spiegare il secondo canto dell'Inferno e, come sempre, il giorno prima, preparando la lezione, mi interrogavo su come avrei potuto iniziare.
Sì, perché la cosa più difficile è attirare l'attenzione delle ragazze e dei ragazzi che hai davanti, che sono lì ma che palesemente vorrebbero essere altrove, che hanno appena letto un messaggio che li ha resi tristi o felici, che hanno appena incrociato il proprio sguardo con quello della persona che occupa i loro pensieri, che stanno ancora cercando di capire la spiegazione appena fatta da chi c'è stato prima di te o che stanno pensando alla verifica che avranno all'ora dopo la tua.
Non basta dire "A me gli occhi, please" per attirare gli sguardi di nutriti gruppi di adolescenti. Non ha mai funzionato e non funzionerà mai, accettiamo la cosa con serena rassegnazione.
Entro in classe, sondo il terreno con gli occhi, mi informo su come stanno, raccogliendo più che altro silenzio, e poi scrivo sulla lavagna una sola parola: PAURA.

"A voi cosa fa paura?"
Una voce coraggiosa si leva in fondo a destra: ho paura di non realizzare niente nella vita.
Poi scopro che c'è chi ha paura dei ladri, chi ha paura del futuro, chi ha paura dei ragni.
"E a lei cosa fa paura?" mi chiedono.
Il professor Keating del Tavoliere non aveva considerato l'ovvio, cioè che qualcuno gli avrebbe posto questa domanda.
Non posso chiederlo a loro senza dirglielo: allora dichiaro la mia paura, sinceramente, senza troppi fronzoli.
Loro ascoltano, rimuginano e poi possiamo iniziare la lezione.

Anche Dante aveva paura, paura di non essere all'altezza di un compito così importante come quello a cui era stato chiamato: compiere una simpatica escursione tra i dannati per vedere quale orrenda fine tocca a chi pecca e non si pente, poi arrampicarsi tipo Reinhold Messner sul monte del Purgatorio per vedere quelli che si sono comportati un po' meglio, infine trovare Beatrice e subire una cazziata colossale prima di salire tipo razzo nell'Empireo per vedere il Boss (no, non Bruce Springsteen, proprio il Boss Boss).
Ma la cosa non era finita qui: una volta finito il viaggio, avrebbe dovuto raccontare tutto ciò che aveva visto per mostrare ai suoi contemporanei la via della salvezza e, collateralmente, essere odiato da generazioni di studenti costretti a studiare controvoglia il frutto di questo suo lavoro che talvolta sembra l'opera di un fondamentalista cristiano sotto effetto di qualche droga pesante.

Stupefacenti a parte, il secondo canto dell'Inferno mi piace particolarmente perché più che altrove in questi versi emerge il lato umano di Dante che ragiona con Virgilio e con noi suoi lettori di qualcosa che ci riguarda tutti.

"S’i’ ho ben la parola tua intesa",
rispuose del magnanimo quell’ombra,
"l’anima tua è da viltade offesa; 

la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.

Sono queste le parole che la magnanima guida rivolge a Dante quando quest'ultimo esprime il suo senso di inadeguatezza per il viaggio che sta per intraprendere: è la viltade che colpisce la sua anima, quel vizio che ingombra l'omo  e gli impedisce di compiere le nobili azioni a cui pure sarebbe chiamato, ottenendo lo stesso effetto che ha sugli animali il falso veder ovvero la sensazione di aver visto qualcosa che non c'è. La paura ci fa tornare indietro, ci fa perdere quella spinta che ci porterebbe su strade nuove, ci costringe a rimanere in situazioni che non ci piacciono e ci impedisce di andare a cercare la soluzione.

Ma come si fa a superare la paura? Sono le parole di Beatrice - riportate sempre dal solito Virgilio - a guidarci in questo senso.
Tu, Dante, stai compiendo questo viaggio - gli spiega il suo maestro - perché quella donna che hai amato in vita e che ormai da 10 anni non c'è più, vedendoti in difficoltà, mossa dall'amore, è venuta da me, dal Paradiso all'Inferno, a chiedere di portarti aiuto.
A lei Virgilio chiede come mai non abbia avuto paura di compiere questa discesa vertiginosa dal regno della salvezza al regno del peccato.

"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch’i’ non temo di venir qua entro. 

Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose. 


Bisogna temere solo le cose che ci possono nuocere, non le altre perché quelle non fanno paura.

Apparentemente sembra un'ovvietà sconvolgente, utile come la ricetta del pollo alla piastra di Elisabetta Canalis (ai pochi eretici che non sanno a cosa io mi stia riferendo, dico pentitevi e informatevi cliccando qui); se invece ci si sofferma un attimo, le parole di Beatrice (che poi sta citando Aristotele) ci aprono un mondo. 
Non dobbiamo fare come gli animali che, presi dalla paura, tornano indietro per un falso veder; non lasciamoci sopraffare ma piuttosto usiamo la razionalità, anche se è molto difficile quando si è invischiati in questo sentimento.
Ciò che ci blocca in un punto, che ci impedisce il cammino è qualcosa che ha davvero il potere di farci male? È qualcosa che davvero non possiamo affrontare? Oppure a farci stare fermi è solo la nostra pigrizia, il nostro non voler uscire dalla comfort zone, il nostro volerci crogiolare nel dolore che in fondo un po' ci piace?

Spoiler: alla fine Dante supera la sua paura e inizia il viaggio anche perché altrimenti la Divina Commedia sarebbe finita qui
E comunque no, non ve lo dico qual è la mia paura.

Lucio Dalla. Futura
 

13 ottobre 2024

I professori non chiedevano mai se eravamo felici

Pensate ai vostri genitori: c'è qualcosa per cui li vorreste ringraziare?
Io non ho alcun dubbio: per avermi circondato fin da piccolo di musica.
No, non è una famiglia di musicisti, la mia: i miei non hanno mai suonato uno strumento, mio padre cantava (e forse canta ancora, non so, dovrei indagare) come uno dei fratelli Gibb o se preferite come un Cugino di Campagna e la voce di mia madre ha la potenza di Viola Valentino e l'estensione di Amanda Lear.
A casa mia, però, si è sempre respirata musica: De André, Janis Joplin, Jacques Brel, Gianna Nannini (la mamma); Battiato, Mannoia, Pino Daniele (il papà).
Avevo circa 8 anni quando in casa iniziò a circolare un vinile nuovo: in copertina c'era un ragazzo con dei riccioli neri e, messo sul giradischi, suonava in modo diverso dalle altre cose sentite fino a quel momento.
Un forte accento bolognese, argomenti nuovi, musica nuova. Era Luca Carboni.

Lo confesso: per un po' ce l'ho avuta con lui. Con lui e con Raffaella Carrà, Suzanne Vega e Silvia Salemi. Aggiungo anche Povia alla lista (ma lui è detestabile per altre mille ragioni).
Cosa li accomuna? Il fatto di aver usato il mio nome in canzoni di successo, consegnandomi così, agnello sacrificale. a chi cercava qualche pretesto per bullizzarmi. 
Luca, cosa ti è successo?
My name is Luka. I live on the second floor.
A casa di Luca facciamo le tre.
Luca era gay e adesso sta con lei.
Ma il primo ricordo è proprio legato a Luca Carboni e al suo Luca si buca ancora.
Un incubo.

L'altro giorno ho riascoltato Silvia lo sai, la canzone di Luca Carboni da cui è tratta la frase incriminata e, a distanza di anni, ho riscoperto una canzone che trovo bella e significativa.
Ma la mia attenzione  - deformazione professionale - è stata attirata da una frase in particolare.

I professori non chiedevano mai se eravamo felici.

È mio compito chiedere alle ragazze e ai ragazzi se sono felici?
Oppure devo limitarmi a spiegare declinazioni latine, coordinate e subordinate, Leopardi e la guerra del Peloponneso? È questo ciò per cui vengo pagato, è questo il mio ambito di specializzazione. 
Se glielo chiedo, sono pronto a ricevere una risposta negativa e ad accogliere le loro storie?
Ma soprattutto ho davvero gli strumenti per comprenderli ed aiutarli in qualche modo?
Oppure rischio di fare danni dando loro suggerimenti basati sull'istinto e sulla mia idea di essere umano più che sulla competenza?
Però mi domando anche: si è davvero docenti mettendo a disposizione generosamente tutto il proprio sapere e la propria competenza, senza però mai mettere realmente in gioco sé stessi e la propria umanità?

Ognuno ha le proprie risposte a questa domanda, tutte legittime e tutte giuste a proprio modo.

Però ogni tanto rimpiango i giorni in cui non mi ponevo tutte queste questioni e la mia unica preoccupazione era, novello Odisseo, girare per casa con le mani sulle orecchie evitando il canto di mio padre e di mia madre per non infrangermi sugli scogli.

Luca Carboni feat. Franco Battiato, Silvia lo sai



06 ottobre 2024

Fare spazio (un piccolo apologo)

Non sarebbe mai successo niente.
La libreria che ho alle mie spalle non avrebbe ceduto nonostante il peso che era costretta a portare.
Non sarei morto schiacciato dai libri: me la immagino molto meno epica, la mia morte.
Eppure, nei rari momenti di silenzio, quando mi sveglio presto e tutto tace, devo aver sentito qualche scricchiolio nello studio.
Magari non c'è stato, l'ho solo immaginato, veniva da lontano. Sta di fatto che ho deciso di voltarmi, guardare dietro di me e affrontare la questione a viso aperto: era necessario fare pulizia e il momento non poteva più essere rimandato.

Ho assistito alla lotta di due demoni dentro di me: da una parte l'accumulatore seriale di volumi saggio dati dai rappresentanti di libri scolastici gridava: "Tutto questo potrebbe servirti, anche se è ancora incellophanato, non lo guardi da 15 anni e forse hai solo fatto finta di sfogliarlo quando te lo hanno dato"; dall'altra il pulitore furioso ribatteva: "Scegli tu: vuoi morire schiacciato dal peso della libreria? Soffocato dalla polvere accumulata? O forse preferisci sprofondare nell'appartamento che si trova sotto il tuo, visto che il pavimento prima o poi cederà? Forza! Selezionare! Pulire! Buttare!"
Ero lì in mezzo a questi due fuochi, quando alla fine, quasi come un automa, senza troppi ragionamenti, ho deciso che il pulitore aveva ragione: dovevo intervenire.

All'inizio è stato facile: tutto il fardello inutile si toglie senza problemi.
I volumi mai consultati, quelli che ho usato e per cui ho maledetto il giorno in cui me li sono trovati davanti, le edizioni più vecchie di libri che cambiano due pagine e si spacciano per nuovi sono stati messi senza alcun dubbio nella pila delle cose da buttare.

Il problema è venuto dopo, quando è toccato agli altri: il libro che ricorda una classe a cui ho voluto particolarmente bene, quello che ho usato il primo anno in cui ero in una scuola di cui ho un ricordo piacevole, quell'altro che è stato mio supporto nei momenti in cui mi è sembrato di fare delle lezioni buone.
E poi pagine e pagine di appunti, schemi, scritti alcuni in bella grafia e curati (quelli dei primi anni), altri solamente abbozzati su fogli improbabili e vergati in modo incomprensibile anche al farmacista più esperto. E altri fogli ancora con cognomi di studentesse e studenti con accanto voti, annotazioni o con liste della spesa di un'altra vita.

Il dubbio, in questi momenti, è stato forte: buttare o conservare? Trattenere o lasciar andare?
Pensiamo che i bei ricordi abbiano sempre bisogno di un supporto materiale per continuare ad esistere e riteniamo che, per liberarci dei brutti ricordi o dei fardelli che ci pesano sulle spalle, sia sufficiente eliminare ciò che di materiale ci fa pensare a loro. Non è vera né l'una né l'altra cosa.
La verità, però, è che fare spazio aiuta tanto: ci vuole motivazione, coraggio per decidere di privarsi di alcune cose che ci sono sembrate indispensabili e determinazione per lottare contro la frustrazione di non riuscire a venire a capo quando bisogna rimettere tutto in ordine.

Alla fatica fisica di mettere tutti quei libri nella macchina ha, però, corrisposto, la soddisfazione di buttarli in discarica uno ad uno, godendomi il momento, facendoli quasi volteggiare verso gli immensi contenitori bianchi per la carta, senza più guardarmi indietro, con la consapevolezza di una decisione ormai presa. 
E poi tornare a casa, con la macchina vuota e un po' impolverata. Guardare la libreria e rendersi conto di essere di fronte ad un nuovo inizio.

Come diceva Esopo, Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι (La favola dimostra che) è bello liberarsi dei pesi inutili, sia che riguardi la nostra libreria, sia  - e ancora di più -  che abbia a che fare con la nostra vita.

Diverse lingue, orribili favelle

L'altro giorno leggevo in classe i Promessi Sposi quando, ad un certo punto, incappo nella parola " creditore": per puro scrup...