Finalmente riesco a capire quale impatto possa aver avuto l'invenzione del fuoco sull'uomo preistorico.
Me li immagino, le donne e gli uomini dei tempi, che con il loro linguaggio primordiale si comunicano le esperienze vissute, si confrontano sui pericoli e iniziano a interrogarsi sulla grande novità che sentono sconvolgerà le proprie vite.
Come potremo gestire il fuoco? Ci aiuterà o ci danneggerà? E se qualcuno ne usasse la forza distruttrice contro di noi, come faremo a difenderci?
Ho sostituito alla parola "fuoco" la parola "intelligenza artificiale" ed ho avuto l'illuminazione.
La svolta è, indubbiamente, epocale e noi - nonostante i corsi di formazione, le rassicurazioni, l'ostentata indifferenza da parte di alcuni e la paura incontrollabile da parte di altri - non siamo pronti perché, sostanzialmente, come gli antichi credevano che il fuoco fosse una prerogativa degli dei e che un eroe - Prometeo - fosse andato a rubarlo loro per donarlo agli uomini, allo stesso modo crediamo che dietro l'IA ci sia qualcosa di divino a cui è impossibile opporsi.
Ma un rimedio c'è, ed è l'imprecisione.
Preciso, etimologicamente, vuol dire privato di tutto ciò che è superfluo.
Preciso è, quindi, qualcosa dai confini netti, dai margini invalicabili che distinguono nettamente ciò che è da ciò che non è.
Il chimico cerca spesso la precisione perché cambiare le proporzioni tra gli elementi che maneggia può significare far fallire un esperimento.
Tutti noi, io per primo, cerchiamo spesso la precisione perché probabilmente ricomponiamo - o cerchiamo di ricomporre - i nostri profondi conflitti interiori curando maniacalmente i particolari esteriori: compensiamo con l'ordine esterno il disordine interno..
Ma l'imprecisione è ciò che ci rende umani: ciò che è troppo preciso nasconde un artificio, un intervento ragionato. Definire tutto ciò che facciamo e ciò che siamo in modo netto è qualcosa che costa fatica, che spesso non ripaga e che richiederebbe - volendo essere onesti - una continua revisione e ridefinizione.
Io sono questo.
No, tu oggi sei questo perché qui ti hanno portato le esperienze che hai vissuto, gli incontri che hai fatto, le occasioni che hai sprecato, le strade che hai scelto di percorrere quando ti sei trovato di fronte ad un bivio.
Domani cosa sarai?
Non si può dire con certezza perché il futuro pone sfide talvolta inimmaginabili in cui sei costretto a rivederti, a ripensarti, a ridefinirti anche in maniera totalmente inaspettata.
La precisione nella definizione di sé è, quindi, una scelta sbagliata da un punto di vista evolutivo: se ci specializziamo, ovvero se ci diamo dei confini precisi, siamo destinati a soccombere perché non in grado di adattarci ai cambiamenti. Come diceva Italo Svevo nel suo saggio L'uomo e la teoria darwiniana solo chi non è ben definito ed è aperto al cambiamento, l'abbozzo di uomo, è destinato a sopravvivere.
E in ambito scolastico?
Quando una studentessa o uno studente mi presenta un lavoro senza sbavature mi insospettisco; quando li vedo ossessionati dalla pulizia del foglio che non deve avere cancellature o pieghe mi pongo una domanda: è davvero questo ciò che insegna - o deve insegnare - la scuola?
Mi vengono in mente queste parole di Italo Calvino:
«Il diavolo oggi è l'approssimativo. Per diavolo intendo la negatività senza riscatto, da cui non può venir nessun bene. Nei discorsi approssimativi, nelle genericità, nell'imprecisione di pensiero e di linguaggio, specie se accompagnati da sicumera e petulanza, possiamo riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore sia nei rapporti con gli altri, il diavolo come personificazione della mistificazione e dell'automistificazione. [...] Riuscire a definire i propri dubbi è molto più concreto che qualsiasi affermazione perentoria le cui fondamenta si basano sul vuoto, sulla ripetizione di parole il cui significato si è logorato per il troppo uso.»
Essere imprecisi, però, non vuol dire per forza essere approssimativi.
Chiaramente, non si può e non si deve dare spazio all'idea - già diffusa a tutti i livelli della società - che, ad esempio, le parole non hanno un peso e che, quindi, usarne una o un'altra è indifferente; non va normalizzata la faciloneria con cui vengono spesso liquidate le questioni importanti; non va difesa l'idea per cui è sufficiente dare l'idea agli altri di essere in possesso di conoscenze per essere considerato uno che sa.
La precisione e la chiarezza di pensiero sono fondamentali; l'approssimazione è, invece, cialtroneria, è mostrarsi in grado di saper fare qualcosa che non si sa fare. È copiare gli esercizi dal compagno di banco per mostrare di aver fatto i compiti a casa, è cercare di gettare fumo negli occhi altrui, confondere le acque per ritrovarsi, però, con un pugno di mosche.
L'imprecisione di cui parlo è qualcosa si può profondo: è l'ammissione dei propri limiti, è la volontà di non cercare la perfezione a tutti i costi, è la rinuncia all'ossessione per la forma.
È qualcosa, come dicevo, di profondamente umano e questo non può essere replicato da nessuna intelligenza artificiale che, invece, com'è giusto che sia, punta alla precisione estrema, che umana non è.
E allora preserviamola questa imprecisione, accettiamo il fatto che i bordi non sono sempre netti e che ciò che divide il sé e l'altro da sé, il giusto e lo sbagliato, il positivo e il negativo è un confine che può e deve essere spesso valicato. È lo stesso Calvino ad insegnarci - nel suo romanzo Il visconte dimezzato - che un uomo è completo solo quando conserva in sé il lato buono e il lato cattivo e che la loro netta separazione, causata da un colpo di cannone che colpisce il visconte Medardo, non porta l'uomo da nessuna parte.
Nella sua raccolta Nature e venature, Valerio Magrelli inserisce questi versi
Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto, la sentinella
che non sa arrestare il battito
breve delle palpebre,
mi stanno a cuore
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno,
il gioco delle parti,
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.
E lasciamo che quel qualcosa balli.
Calcutta, Tutti