L'altro giorno leggevo in classe i Promessi Sposi quando, ad un certo punto, incappo nella parola "creditore": per puro scrupolo, chiedo ai malcapitati venticinque lettori (sono diciannove, ma Manzoni non lo deve sapere) se conoscano il significato di questo termine.
Improvvisamente trentotto occhietti impauriti si bloccano su di me come se avessi chiesto la classifica finale di Sanremo 1974 o una panoramica sulla letteratura bulgara del diciannovesimo secolo.
Nessuno conosceva il significato di questo termine.
A quel punto le reazioni possibili erano tre: uscire dall'aula sbraitando come Tarzan nella foresta, aprire un profilo LinkedIn per cercare lavoro come lavapiatti nelle isole Fær Øer oppure mantenere la calma e spiegare loro il significato del termine.
Mancandomi le physique du rôle per vagare nei corridoi della scuola aggrappandomi alle liane e non avendo contezza della presenza di ristoranti nel noto arcipelago situato tra Norvegia e Islanda, ho scelto la terza opzione, con non poco sgomento.
Questa cosa, però, ha continuato a ronzarmi in testa.
Com'è possibile che non si conosca un termine che ovviamente non entra nella comunicazione quotidiana di persone adolescenti ma che pure - credo - sia una parola piuttosto diffusa?
La sensazione, ormai sempre più netta, è quella della presenza di due lingue, distinte e separate, in cui la discriminante non è l'origine geografica o la classe sociale di appartenenza, quanto piuttosto l'età.
Immagino lo sforzo titanico a cui si devono sottoporre ragazze e ragazzi che cercano di usare - com'è normale che sia, com'è sempre stato e come sempre sarà - il linguaggio che vogliono gli adulti nel momento in cui devono fare un'interrogazione o devono scrivere un compito, raggiungendo talvolta risultati ai limiti del grottesco.
È esattamente la stessa cosa che facevo io quando dovevo tradurre le versioni di greco ed usavo un vocabolario che ancora oggi si usa - il famigerato Rocci, chi ha fatto il classico lo sa - ma che ai tempi proponeva traduzioni dei lemmi greci in un italiano incomprensibile, ma che mi affascinava.
Usando imperocchè o fo da mallevadore pensavo che le mie traduzioni sarebbero state più eleganti o almeno avrebbero dato l'impressione che avevo capito qualcosa di quel testo di Senofonte o del temutissimo Tucidide.
Solo dopo ho scoperto - a mie spese - che le cose non stavano così.
Al momento della verifica, dicevo, gli studenti devono usare un linguaggio che non appartiene loro, che fanno fatica a padroneggiare, abituati ad esprimersi in un modo non migliore, non peggiore ma semplicemente diverso rispetto a quello degli adulti.
È pacifico il fatto che termini come boomer, cringiare, snitchare, chillare, bro, giga chad non sono utilizzabili mentre si parla dello Stilnovo o della poesia ermetica, mentre si raccontano le imprese di Orlando o i dolori di Jacopo Ortis.
È altrettanto pacifico che non è accettabile il fatto che si parli di Accademia della Carruba (invece di accademia della Crusca) e si confonda giudizioso con giudicante o caffetteria e caffettiera.
Trovo, però, incomprensibile lo sdegno, manifestato solitamente con atteggiamenti teatralmente tragici, da parte di colleghe e colleghi - ma anche di adulti in generale - che ritengono inaccettabile questo imbarbarimento della lingua che chissà dove ci porterà, signora mia.
Accettare il cambiamento, sedersi - metaforicamente - ad un tavolo da cui si lasciano lontani pregiudizi e pretese superiorità per confrontarsi sulla lingua e provare a trovare un terreno comune, tramite di comunicazione intergenerazionale.
Io, adulto, mi impegno a spiegare parole che appaiono desuete o difficili in modo che possano essere comprese da chi a quelle parole non associa alcun significato; tu, adolescente, ti sforzi di spiegarmi con parole per me comprensibili la tua lingua, così da poter facilitare la comunicazione, anche ad un livello più profondo. E no, non basta leggere per migliorare la lingua se non si è curiosi di scoprire il significato delle parole che non si conoscono. E la curiosità non nasce spontanea, ma ha bisogno di essere stimolata costantemente.
Poi, ognuno può tornare alla propria lingua, arricchito, però, dalla conoscenza della lingua dell'altro, nella consapevolezza che ogni sistema linguistico è espressione di una cultura e di un modo particolare, non migliore né peggiore, di vedere le cose.
Mina, Parole parole