14 settembre 2025

Le scarpe nuove

Dei miei primi 13 anni di vita ho pochissimi ricordi.
In psicologia si chiama "rimozione" ed è un normale processo di sopravvivenza: la tua mente sa che devi andare avanti e mette da parte la memoria degli episodi negativi per far sì che tu non ci affoghi.
Tutto questo, però, crea un vuoto fastidioso, direi quasi un buco nella trama: ho dei flash che mi balenano davanti agli occhi di me bambino, ma sono come luci improvvise nel buio. Cosa c'era prima? Cosa c'è stato dopo? Come mi sentivo? E le persone intorno a me cosa facevano?
C'è, però, un tratto che sono certo di aver ereditato dal me del passato e che ritorna costante nelle mie esperienze: l'entusiasmo di fronte alle cose nuove, anche piccole.

Una matita con la punta affilata, di quelle che se la tocchi con il pollice senti un piccolo brivido.
Un paio di calze nuove per andare a correre (perché quelle vecchie a cui eri affezionato ormai hanno buchi dappertutto)
Una gomma ancora candida, con gli angoli squadrati, che ti aiuterà a cancellare i tuoi errori.
Un quaderno bianco.
L'agenda di inizio anno, quella scelta tra tante e che inizialmente compilerai con cura, segnando ogni appuntamento, usando una bella grafia, la penna giusta e poi diventerà comprensibile come la Stele di Rosetta prima che Champollion ci capisse qualcosa.
Un profumo che ti piace e che per la prima volta ti spruzzi addosso.
Quella maglia che aspetti di indossare per celebrare un'occasione: un nuovo incontro, una persona da rivedere, il ritorno in un luogo in cui sei stato felice.

Sono tutti particolari minuscoli, insignificanti agli occhi degli altri.
Nessuno si accorge della gomma candida, della matita affilata, del quaderno, dell'agenda, della maglia.
Ma io so che sono lì a significare qualcosa di nuovo, a rappresentare materialmente un ennesimo inizio; cercherò di preservarne l'integrità, all'inizio starò attento a non rovinarli, sporcarli o corromperli in qualche modo, avrò la cura di quando si entra in una casa nuova e si cerca di camminare sulle punte per non rovinarla o di quando si acquista una macchina e si evita in ogni modo di procurarle un piccolo graffio.
Poi succederà.
Gli angoli della gomma si smusseranno perché gli errori ci sono stati e vanno cancellati.
La matita perderà la sua punta perché ho avuto tanto da scrivere, sottolineare, annotare e per quanta cura tu ci possa mettere, non tornerà più quella punta che aveva all'inizio.
Il quaderno e l'agenda riporteranno pezzi della mia vita, appunti, scritte incomprensibili, lampi di genio, maledizioni.
Quegli oggetti smetteranno di essere nuovi per diventare vissuti: alla bellezza della novità si sostituirà quella della consuetudine.
E penserò che ciò che era una novità mi è servito - magari anche solo psicologicamente - per affrontare la vita che mi si parava davanti.
Mettere le scarpe nuove per i giorni di fango, per quanto apparentemente insensato, è forse la cosa migliore che possiamo fare.

Calcutta, Tutti

07 settembre 2025

Ricominciamo

E così si sta per ricominciare.
Tra qualche giorno finirà questo tempo sospeso, vuoto solo all'apparenza, e riprenderemo con la nostra routine.
E ci lamenteremo - perché lo facciamo sempre - della sveglia che ricomincia a suonare al mattino, del traffico, dei genitori, di quanto sia frustrante la nostra professione, di quanto sia difficile seguire le regole che cambiano in corso d'opera e applicare delle norme calate dall'alto senza alcun aiuto. Vi dico cosa fare, ma non come farlo.
Inizieranno le lotte per i cellulari, le ansie per il nuovo esame, i soliti siparietti con cani che mangiano i quaderni e zii che muoiono 3 o 4 volte; dovremo affrontare crisi esistenziali, chatGPT, proteste, mugugni, apatia, domande del tipo acosaservelascuola, varie ed eventuali.
Fortunatamente, però, questa è solo una piccola parte del mio lavoro.
Perché ci sono loro.

Molti li rivedremo in classe: magari cambiati, maturati, con uno sguardo diverso. E avremmo voglia di chiedere loro quali esperienze hanno fatto sì che i loro occhi cambiassero, di sapere se hanno finalmente trovato il divertimento che la scuola-carcere e i professori-carcerieri hanno negato loro durante i mesi precedenti e se un po' hanno sentito la mancanza del tempo scandito con tanta precisione dalla campanella.  
Non lo faremo, per pudore, perché alla nostra domanda seguirebbe un silenzio imbarazzato o infastidito, perché bisogna iniziare a fare lezione altrimenti poi non avremo il tempo necessario per fare chissà cosa.
Altri non li rivedremo più: hanno cambiato scuola, sono andati via in silenzio per ragioni che possiamo solo supporre. E ci chiederemo cosa sia successo, cosa faranno, se staranno meglio con la nuova classe e i nuovi insegnanti. Sarà un pensiero che ci sfiorerà e andrà via
Poi ci saranno quelli che rivedremo ancora nei corridoi, ma non nella nostra classe: un sorriso appena accennato, una mano sollevata e via, ognuno per la propria strada. Sono gli studenti non promossi, come si dice per una sorta di pudore, così come i ciechi sono i non vedenti, con un giro di parole che suona davvero poco inclusivo perché, per non voler parlare di una mancanza, effettivamente la sottolinea.
E - alcuni di loro - non riesco a guardarli senza un sottile senso di colpa.
Ho fatto abbastanza? Cosa non ho capito? Cosa avrei potuto fare? La sensazione di aver sbagliato qualcosa è sempre dietro l'angolo e lotta con ciò che da un punto di vista professionale è giusto e giustificabile.

Mi vengono in mente le parole di Daniel Pennac nel suo saggio Diario di scuola:

Ogni studente suona il suo strumento, non c'è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l'armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un'orchestra che prova la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all'insieme. Siccome il piacere dell'armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica.

Saper riconoscere l'importanza del triangolo e apprezzare gli sforzi fatti per suonarlo.
Ma anche.
Ricordarmi di imparare ogni giorno qualcosa.
Non dimenticarmi l'umanità, anche quando tutto sembra remare contro.
Non farmi sovrastare da tutto quello che non ha a che fare con ciò che mi ha fatto innamorare di questo lavoro.
Sarà questo il mantra di quest'anno.

Gazzelle, Settembre


31 agosto 2025

Il dito davanti

- Sarà pronto tra una settimana
- Ma come una settimana?!
- Sì, sono tanti i rullini da sviluppare. Devi avere pazienza.
Quanto odiavo quella frase.
Era frustrante, a fine agosto, aspettare il giorno in cui il fotografo ti avrebbe consegnato le foto.
Quelle giornate lunghe di inizio settembre sembravano non passare mai: giorni vuoti di cose da fare ma pieni di nostalgia delle cose fatte, i compiti ancora da iniziare, l'idea di essere in un momento di passaggio, il tempo che trascorreva immobile.
Leggevo la cartoline che mi avevano inviato, pensavo alle occasioni (più quelle perse che quelle colte) e aspettavo.
Ma poi arrivava inesorabilmente il giorno.
Fremevo, nella breve strada assolata che dovevo percorrere per arrivare nel negozio.
Mi accoglieva il rumore di grandi macchinari e un odore un po' acido che - credo - il mio olfatto riconoscerebbe ancora.
Ho la busta tra le mani: la apro e sono felice.

Foto mosse, foto brutte, foto che non ricordavo di aver scattato, foto che è meglio non far vedere a mamma e papà, foto in parte bruciate.
E poi non mancavano mai le foto in parte coperte dal dito davanti all'obiettivo.
In ogni rullino ce n'era almeno una ed ho ancora netta la sensazione dello sforzo di ricordare cosa ci fosse dietro quel dito, cosa mi stesse nascondendo. 
Erano spesso inutili, quelle foto, ma non le strappavo.
Erano un omaggio all'imprecisione.

Cos'è rimasto, oggi, di quella imprecisione?
Ossessionati dalle foto aesthetic, non ci sentiamo soddisfatti fino a quando la foto non è perfetta per essere mostrata. Sorrisi forzati, pose studiate, inquadrature sempre uguali: e poi? Che valore ha la foto? Perde il suo valore evocativo e diventa solo una testimonianza di ciò che volevamo apparire in quel momento. Guarda come ero felice in quella foto: peccato che - magari - quel sorriso era solo una maschera con cui ingannare gli altri, ma mai noi stessi.
Cancelliamo le foto mosse, brutte, non conformi perché occupano spazio nei nostri smartphone e ci creiamo in questo modo una memoria artificiale fatta solo di bellezza e di perfezione.
Non lasciamo traccia di ciò che non è né bello né perfetto, rimuoviamo i dispiaceri e diventiamo sempre meno pronti ad affrontare la noia, il brutto, il dolore.
In un momento di evoluzione sociale in cui apparentemente normalizziamo tutto, non sembriamo disposti ad accettare anche ciò che non è opportuno mostrare. Normalizziamo tutto, ma non le scene tagliate - i ciak sbagliati - della nostra vita.

Nel racconto L'avventura di un fotografo, Italo Calvino scrive:

Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo. Se fotografate Pierluca mentre fa il castello sabbia, non c'è ragione di non fotografarlo mentre piange perché il castello è crollato, e poi mentre la bambinaia lo consola facendogli trovare in mezzo alla sabbia un guscio di conchiglia. Basta che cominciate a dire di qualcosa «Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!» e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia

Ma soprattutto, che fine hanno fatto coloro che sviluppavano le foto?

Carl Brave feat. Francesca Michielin e Fabri Fibra, Fotografia

17 agosto 2025

La libertà di non essere inquadrati

Ma agosto, esiste davvero?
Ma esiste davvero, agosto?
E dove si nasconde
quando agosto non è?

Rileggevo l'altro giorno questi versi di Valerio Magrelli, mio guru poetico, contenuti nella sua più recente raccolta poetica, "Exfanzia", pubblicata da Einaudi nel 2022.
Leggevo e pensavo a questo mese crudele, che acuisce le differenze e la solitudine, dietro una facciata sfacciatamente sorridente.
Pensavo a questo mese di vacanza ma anche alla furia classificatoria di cui ultimamente siamo vittime.
Ho letto della staycation e ho iniziato ad avvertire come un prurito, un leggero brivido che ha attraversato la mia spina dorsale in tutta la sua lunghezza.
Ma cos'è la staycation?

È banalmente un modo piuttosto figo - perché l'inglese fa sempre figo - per indicare che si passano le vacanze a casa perché non si hanno soldi da spendere.
Sapere che si fa parte del 25% di italiani che in estate non va da nessuna parte forse ci fa sentire meno soli o meno inadatti: la situazione in cui ci trova non diventa certamente meno deprimente ma, classificati in questo modo, ci sentiamo parte di un gruppo che ha un proprio nome, è socialmente riconosciuto e quindi accettato e - se ben infiocchettato - anche desiderabile perché permette di perseguire quella vita lenta - altra espressione che fa tanto Instagram; inoltre la staycation permette anche, a chi lo voglia, di ergersi moralmente al di sopra di chi va in luoghi vittime dell'overtourism (altro problema davvero serio che però sta diventando una lotta da social e, quindi, svuotata dall'interno) e di ridere delle lacrime dei balneari per la stagione di stenti e privazioni che stanno attraversando.
Quindi la forma modifica la sostanza e fa diventare cool una situazione che spesso capita per motivi indipendenti dalla volontà di chi si trova a viverla. 
Avere un etichetta da metterci addosso, come prodotti da supermercato, ci fa sentire parte di un gruppo e il paradosso è che in un'epoca di individualismo sfrenato come quella che stiamo attraversando sembra che non possiamo vivere se non siamo all'interno di contesti ben definiti.
Novelli Adamo, diamo un nome a tutto: ad ogni nuova tendenza, ogni nuovo genere musicale, ogni sentimento, ogni modo di pensare, di mangiare, di vivere diamo un nome. E se da una parte è positivo - perché le cose iniziano ad esistere quando vengono nominate - dall’altra capita di dare la dignità dell’esistenza a cose che potrebbero e dovrebbero anche scomparire velocemente.
Irrefrenabili Linneo, classifichiamo tutto e, classificando, semplifichiamo e, semplificando, ci disabituiamo alla complessità e alla diversità.
Tutto deve rientrare in schemi fissi, moltiplicabili all'infinito ma inesorabilmente fissi; ciò che non rientra in categorie già esistenti, crea una categoria a sé con le proprie definizioni e i propri limiti. Cerchiamo affannosamente una categoria in cui rientrare, in cui riconoscerci e siamo disposti a limarci, a modificarci pur di rientrare negli standard di quella precisa categoria.

E mi vengono in mente le parole di Italo Svevo che nel saggio L’uomo e la teoria darwiniana scriveva questo:
“Nella maggioranza degli uomini lo sviluppo per loro fortuna e per fortuna dell’ambiente sociale, s’arresta. Lo sviluppo eccessivo di qualità inferiori, tutte quelle che immediatamente servono alla lotta per la vita, non sono altro che arresto di sviluppo. [...]. Io credo che l’animale più capace ad evolversi sia quello in cui una parte è in continua lotta con l’altra per la supremazia, e l’animale, ora e nelle generazioni future, abbia conservata la possibilità di evolversi da una parte o dall’altra in conformità a quanto gli sarà domandato dalla società di cui nessuno può ora prevedere i bisogni e le esigenze. Nella mia mancanza assoluta di uno sviluppo marcato in qualsivoglia senso io sono quell’uomo. Lo sento tanto bene che nella mia solitudine me ne glorio altamente e sto aspettando sapendo di non essere altro che un abbozzo.”

Essere abbozzi di uomini, non cercare una forma fissa e soprattutto ammettere sinceramente anche a sé stessi che se non si va in vacanza magari è perché non si hanno soldi o tempo o compagnia. O, ancora meglio, sentirsi liberi di non doversi giustificare per il fatto di non essere inquadrati.
Sarà questa la libertà?

Franco Battiato, Zone depresse


03 agosto 2025

Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - sono i libri a scegliere noi. Ed è forse questo il motivo per cui Pennac, nell'incipit del  suo saggio Come un romanzo, afferma perentoriamente che il verbo leggere non sopporta l'imperativo. Non possiamo leggere se non siamo scelti, o almeno richiamati da qualche libro come Odisseo dalle Sirene.
Mi è successo di nuovo.
Lunedì ero nella mia libreria del cuore ed improvvisamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo: "Lo sbilico". Sicuramente me ne ha parlato qualcuno, ma l'informazione era stata messa da parte.
Lo chiedo.
Ce lo hanno.
Torno a casa.
Lo divoro letteralmente.
Mi viene solo un aggettivo per descrivere questo libro di Alcide Pierantozzi: necessario.

È un libro necessario perché permette a chi sfoglia queste pagine di entrare a fondo nella mente di una persona neurodivergente e con disabilità psichica.
Ma è anche un libro duro, che non normalizza, che non fa sconti, che non romanticizza la malattia mentale, ma la sbatte in faccia e non permette di girarsi dall'altra parte.
Questo libro - scrive Pierantozzi nella nota che accompagna il romanzo - è stato scritto in presa diretta, quasi come un diario di bordo della malattia, e racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi. [...] Questo non è un libro di autofiction.
Tutto vero, quindi, anche quando non è verosimile; tutto vero, quindi, ma chi legge deve avere la consapevolezza che ciò che legge non per forza è la verità, un po' come quando si affronta la lettura di quel caposaldo del Novecento che è La coscienza di Zeno
Il narratore che racconta - Zeno - è, come è stato detto dalla critica, un narratore inattendibile: il patto narrativo con il lettore è rotto in maniera irreversibile, non ci si può fidare di ciò che si legge ma bisogna esercitare il senso critico per capire ciò che è vero e ciò che non lo è.
Nel caso del romanzo di Pierantozzi, invece, si ha la percezione che sia vero anche ciò che palesemente vero non è: la descrizione delle allucinazioni del protagonista colpisce diretta la fantasia di chi legge, che percepisce la realtà di quelle immagini con la stessa forza con cui - forse - le ha percepite chi le racconta.
E il coinvolgimento del lettore è parte essenziale di questo libro.

Noi matti non abbiamo solo il diritto di essere soccorsi dai sani, ma anche il dovere di inceppare ogni giorno il mondo per metterlo in discussione ai loro occhi.

Il linguaggio è allo stesso tempo preciso e violento e rievoca la costruzione della realtà narrata che si ritrova nelle poesie di Alda Merini e Clemente Rebora o nei Canti Orfici di Dino Campana.
Ti perfora le narici l'odore di varichina e sapone di Marsiglia con cui il protagonista lava la schiena della nonna in campagna; quasi ti arrivano in faccia gli schizzi di sangue degli animali che vengono uccisi in campagna con una crudeltà quasi ancestrale; percepisci nel petto i bassi della musica assordante che arriva dallo stabilimento balneare mentre il protagonista sta cercando di scrivere. Ti sembra di vederlo quel polso che si muove continuamente; ti sembra di sentirlo quel vivivivivivi che fa sembrare il protagonista un handicappato.
È un libro che ti sfida, che ti costringe ad imparare parole nuove, quelle che servono per descrivere sensazioni mai provate perché l'indescrivibilità non esiste, bisogna solo attendere le parole giuste.
La ricerca della parola, quindi, non è mai fine a sé stessa: la parola giusta descrive e al contempo salva.
Dopo essere entrato in contatto - in maniera a dir poco rocambolesca - con un dizionario dei sinonimi e dei contrari, l'autore racconta come quella lettura gli abbia cambiato la vita:

Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l'ordine alfabetico. Quando leggevo cosí, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava.
Non capivo il significato di quasi nessuna parola. Non m'interessavano quelle facili, «casa», «topo», «ospedale», mentre le alternative dei sinonimi mi sconvolgevano.
La sera, quando tornavo dai campi, mi lavavo in una grande bagnarola azzurra che nonna lasciava scaldare al sole per tutto il pomeriggio. Era la stessa dove venivano messi i pomodori da cuocere per le conserve. Me ne stavo a mollo nell'acqua tiepida, in un retrodore di sugo e solventi, e pensavo a quelle parole.
- «Casa» si può dire anche «abituro, casaleccia, tugu-rio», - declamavo a voce alta. Non ero in grado di cogliere le diverse sfumature di significato, se non qualche volta, per intuito. M'interessava solo il suono. - «Complimento» si può dire anche «elogio, lode, omaggio». 
Conoscevo la parola «lode», e cosí cominciavo a capire che quando nonna mi faceva un complimento mi stava facendo anche una lode. M'insaponavo il collo dietro le orecchie ripetendo: - Anima, animula, spirito, essenza.
Ritmi precisi, accenti ben cadenzati. Diversi dal dialetto che si parlava in famiglia. Ogni parola del libretto, a leggerla a voce alta, sembrava ispessirsi di suono. Ogni parola era intera, non si spezzava come quelle che usavamo noi: «anda'», «fa'», «corre», «perde»..
A casa nostra si parlava un dialetto talmente stretto e antiquato da sfiorare il latinorum. Dove non arrivava il mugugno, la sbuffata, la bestemmia, le parole si spampanavano in un «Scí!» «Muvet!» «Piia quest e piia quell!»
Per tutt'altro verso riconoscevo che ciascuna parola del dirionarietto voleva indicarmi qualcosa di preciso. Quando le ripetevo al posto del «didin», sentivo che mi facevano da filtro, mi tenevano alla giusta distanza emotiva dalle cose. Dire «gronda» al posto di «grondaia» non era per niente la stessa cosa: «gronda» richiamava su di sé un'attenzione che mi distoglieva dalla risonanza lirica della grondaia in sé, della sua consistenza di lamiere, della sua forma sinusoidale altrimenti ingestibile per i miei sensi.
[...]
Mi accorsi che ripetere quelle strane parole mi piaceva fisicamente: avevano qualcosa di multisonante, qualcosa che riusciva a drenare il marcio attraverso lo strato corneo della pelle. Non avevo nessun interesse a usarle, non leggevo niente a parte le poesie di scuola, ma quelle parole nella mia testa azzurreggiavano, e inevitabilmente cominciarono a entrare nei miei discorsi. Le insegnanti non capivano da dove le tirassi fuori, i miei nonni mi dicevano "parla normale", i compagni di scuola ridevano. Quelle parole medicamentose, impazienti di essere comprese, pronte a diventare un mezzo, io le consideravo un fine, il compimento di un risultato.

E poi c'è la figura della madre, salvifica, quella del padre, il Negazionista, il fratello con una cosina sulla mano e l'altro fratello, vittima di tutta questa situazione; e i nonni, i medici e tutto il microcosmo che ha come centri di gravità Milano e l'Abruzzo, la palestra, la spiaggia e la biblioteca, in cui il protagonista si muove e di cui ad un certo punto anche chi legge entra a far parte.

Un libro necessario, duro, sfidante, con cui - soprattutto in questi tempi - credo sia indispensabile fare i conti.

Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi 2025

Fabrizio de André, Un matto

27 luglio 2025

Ciò che ci salva

Ci sarebbe tanto di cui parlare.
Di quanto ci piace spiare dal buco della serratura o ascoltare le conversazioni altrui (dico solo Coldplay e Raoul Bova). Per sentirci migliori degli altri, forse?
Di quanto la nostra memoria sia corta: lo scorso anno c'era stata una sollevazione popolare perché la gente aveva preferito "Temptation Island" al programma di Alberto Angela (se non ve lo ricordate, avevo dedicato un post alla questione che si può leggere qui); quest'anno, invece, milioni di persone a guardare queste storie, salvo poi ricordarci -  concluso il programma - di prendere posizione contro le storie tossiche di cui questo programma è un serbatoio notevole. Salvo poi ricordarci che la normalizzazione dell'ignoranza e delle reazioni violente da maschio alpha vanno condannate. Ma d'estate tutto sembra lecito.
Ci sarebbe da parlare dell'acaro che sorride perché il mondo è una polveriera (come direbbe Caparezza) e del nostro sentirci inadeguati e impotenti, quasi in colpa perché noi godiamo di una condizione di - relativa - pace.
Ma non voglio parlare di tutto questo.

Di fronte al mondo che non è come mai come vorremmo che fosse - nel micro e nel macro - oltre all'impegno personale che serve a rendere il proprio centimetro quadrato un posto migliore ci può aiutare la lettura.
Isolarsi alla ricerca di un equilibrio, di una quadratura del cerchio, anche quando intorno c'è rumore: a questo serve la lettura.
Cerchiamo le pagine ci risuonano, ci toccano, ci commuovono. O facciamoci trovare.
Questa poesia di Mariangela Gualtieri, ad esempio.

Sento il tuo disordine
e lo comparo al mio. C’è
somiglianza. C’è lo stesso slabbro
di ferite identiche. C’è tutta la voglia
di un passo largo in una terra
sgombra che non troviamo.
Sento il tuo respiro schiacciato
lo sento somigliante
ti sento piano morire
come me che non controllo
l’accensione del sangue.

Anch’io cerco una libertà che mi
sbandieri, una falcata
perfetta, uno stacco d’uccello
dal suo ramo, quando si butta
improvviso e poi plana.

Trovare elementi di somiglianza nella comune sofferenza, nel disordine, alla ricerca di una libertà che improvvisa che è la stessa dell'uccello che trova improvvisamente il coraggio di volare.
La poesia ci salva.

20 luglio 2025

Nelle puntate precedenti

L'anno trascorso non è stato facile.
Ricco, ma per nulla agevole.
È stato una corsa affannosa in alcuni momenti; in altri una sosta indesiderata quando avrei solo avuto voglia di allontanarmi.
Ho camminato su strade note, ampie e accoglienti, ma ho anche visto un crepaccio sotto di me: ho dovuto allargare le braccia e, come un equilibrista, mettere un piede davanti all'altro concentrandomi con lo sguardo fisso in avanti per non cadere.
Non ho camminato solo: c'è stato chi, come una lampadina che sta per fulminarsi, dopo avermi fatto luce ad intermittenza per un po', si è spento definitivamente; chi ha saputo adattare il proprio passo al mio per godere insieme il panorama; chi ha fatto sgambetti per il gusto di vedermi a terra; chi ogni tanto mi ha spinto in avanti per farmi smettere di fissare particolari inutili o mi ha impedito di proseguire per costringermi a guardare ciò che non volevo vedere.
Ora è il momento di rifiatare un attimo, ritrovare l'equilibrio perso, consultare la mappa e provare a capire dove andare. Ma è anche il momento di riguardare indietro ad una delle esperienze più significative fatte negli ultimi mesi, ovvero la radio.
Costruire mondi con le parole è un po' il mio lavoro e un po' la mia utopia. 
Fare questa stessa cosa in radio, dove mancano fisicamente gli occhi di chi guarda, dove non hai da insegnare ma da raccontare, dove non hai da mettere voti ma da accompagnare, è una bella sfida, che ho raccolto con tutta l'incoscienza che mi caratterizza (e no, non è colpa del fatto che sono gemelli).

Il punto di partenza per le puntate di "Mita è un mito" è stata storia delle parole della moda (potete riascoltare la puntata cliccando qui) che ho provato a ricostruire parlando alla velocità di Milly Carlucci sotto acido - no, ma non avevo l'ansia, stavo semplicemente provando a replicare nella vita reale un vocale whatsapp ascoltato in 2x.
Marzullianamente, poi, ci siamo chiesti non se la vita è un sogno o se i sogni aiutano a vivere meglio (questo lo lasciamo fare all'unico uomo sulla terra che può indossare camicie con strisce orizzontali), ma se siamo noi a inseguire la moda o se è la moda a inseguire noi. Se non sapete rispondere e volete fare bella figura con gli amici con i quali sicuramente affronterete questo discorso, potete trovare le risposte a tutte le domande cliccando esattamente qui
Abbiamo quindi cercato di scandagliare ogni ambito della moda e del suo rapporto con il mondo circostante: ci siamo addentrati nei meandri della psicologia, chiedendoci se l'abito fa il monaco (troverete qui la risposta che cercate), se è possibile parlare di etica nella moda (spoiler: la risposta è sì anche se ci sono ancora tanti passi da fare e ascoltando la puntata capirete il perché) e se e in che modo esiste una connessione tra moda e linguaggio (una delle puntate che mi ha divertito di più e credo si sia sentito. Ve la siete persa? Potete pentirvi e recuperarla qui).

Grande spazio è stato dato al rapporto che la moda ha con il cinema: il nome Edith Head vi dice qualcosa? No? Allora, come se fossimo L'edìpeo enciclopedico - la pagina della "Settimana enigmistica" che vanta il maggior numero di tentativi per capire cosa si fosse fumato chi le ha dato questo nome - ve lo raccontiamo noi in questa puntata. Per non parlare di quando abbiamo parlato di film che parlano di moda o vi abbiamo trascinato nell'abisso dei b-movies italiani, districandoci tra l'Esorciccio, supplenti e dottoresse ammiccanti e i congiuntivi sbagliati del ragionier Fantozzi.
Ma avremmo poi potuto tralasciare la letteratura o l'arte? Pensate di poter vivere senza sapere qualcosa di più del tramezzino di D'Annunzio o dell'abito aragosta di Salvador Dalì? No, non ci credo.
E poi la musica: da Kurt Cobain a Orietta Berti, da Madonna a Jula de Palma, da Missy Elliot alle Figlie del Vento. Abbiamo sfiorato decenni di musica, indagando sul rapporto che la moda ha con il rock internazionale, con il pop internazionale, con la cultura hip-hop e lo streetstyle fino a toccare l'abisso del nazional popolare parlando di Sanremo, argomento sul quale non capisco come mai non mi sia ancora stata conferita una laurea della prestigiosa università "Pippo Baudo" di Militello.

Insomma, tante, tantissime parole che hanno richiesto un po' di studio e parecchia sfacciataggine.
Avrei ancora parole di ringraziamento per tutte quelle persone che mi hanno aiutato, ascoltato, sostenuto, consigliato, ma i grazie più belli sono quelli che si dicono guardandosi negli occhi.
Consideratevi, comunque, tutti ringraziati.
Ci risentiamo a settembre?

Eugenio Finardi, La radio

Le scarpe nuove

Dei miei primi 13 anni di vita ho pochissimi ricordi. In psicologia si chiama "rimozione" ed è un normale processo di sopravvivenz...