Mi rendo conto di aver ripetuto - e di aver sentito ripetere - tante volte questa frase ma di aver fatto fatica a coglierne a fondo il senso e la portata.
Un po' come accade per quelle formule che si ripetono stancamente e a lungo, quasi come litanie, e ciò fa sì che delle parole restino solo i suoni e si perdano i significati.
Il lavoro è labor, ovvero è fatica, ma è anche dignità.
In francese il lavoro è travaille, che suona proprio come il travaglio in italiano, ma non può essere pagato in visibilità.
Non deve essere un privilegio né una merce di scambio né tantomeno un'occasione di sfruttamento.
Ma non deve essere neanche una gabbia.
Non posso non pensare a ciò che siamo diventati.
Siamo quelli delle spunte blu, quelli che se non rispondi subito, se non sei sempre reperibile, se non sei performante, significa che sei fuori dai giochi o sei poco interessato.
Siamo quelli che perdono il fiato e la serenità pur di salire su tutti i treni che passano una volta sola (che poi, in realtà, potrebbe anche non essere male rimanere nel luogo in cui si sta).
Ci hanno fatto credere di essere indispensabili, come se ogni lavoro fosse quello di un chirurgo che opera d'urgenza e a cuore aperto.
Ci hanno fatto credere che la reputazione sociale dipende da quanto denaro si riesce a procurare e non importa come e a danno di chi lo si fa.
Ci hanno detto e ripetuto che con la cultura non si mangia e che ogni estate le strutture ricettive mancano di personale perché i giovani non hanno voglia di lavorare e di fare sacrifici.
Passiamo buona parte della nostra vita lavorando o pensando al lavoro.
Il rischio di farlo diventare l'unica ragione di vita è dietro l'angolo ma va evitato. È come le sirene di Ulisse, soprattutto quando il lavoro ci dà soddisfazione, quando è quello in cui riusciamo, quando diventa il microcosmo in cui noi - come dei demiurghi- riusciamo a mettere ordine mentre intorno a noi è tutto un caos. Diventa la nostra zona di comfort che dobbiamo abbandonare per crescere; avere il coraggio di guardare fuori anche quando il fuori è più incerto, più difficile, meno controllabile.
Mi vengono in mente i versi di Cesare Pavese nella sua poesia Lavorare stanca
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
Il vero lavoro dell'uomo, per quello che questi versi mi suggeriscono, è vivere ed è forse proprio questo che, nella visione di Pavese, stanca.
E forse il lavoro quotidiano, quello ufficiale, quello stipendiato, prevedibile e quindi controllabile, è solo una scusa nobile e una via di fuga che ci permette di vivere ai margini della vita sfiorandola e senza immergersi nel suo flusso: non posso vivere, devo lavorare.
Il teatro degli orrori, Lavorare stanca
Lo so, hai ragione, è più facile lavorare che vivere. Però già accorgersene è un piccolo passo di consapevolezza.
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