25 maggio 2025

V(u)oto

"A me è maggio che mi rovina".
La poesia - splendida - di Patrizia Cavalli, per me, potrebbe concludersi qui.
Incorniciati tra due feste tanto belle quanto ormai tristemente utopiche - quella dei lavoratori e quella della repubblica - i giorni di maggio scorrono inesorabili, pesanti come macigni e si portano dietro la stanchezza dei mesi di scuola e la frustrazione per quello che si sarebbe voluto fare e non si è fatto, per i risultati che si sarebbero voluti raggiungere e invece no.
Si rincorrono valutazioni, interrogazioni, recuperi, speranze, sensazioni di fallimento, sospiri di sollievo: si ha la sensazione perenne di annaspare, di non sapere a cosa dare priorità e si perde di vista tutto il resto.
E tutto questo riguarda docenti, studenti e famiglie. Tutti su una stessa zattera, ancora lontana dalla costa.
Ed è proprio quando sembra di non potersi fermare che è giusto farlo.
E io l'ho fatto l'altro giorno con i miei pupilli.

È naturale: quando si parla di scuola con i ragazzi e lo si fa a cuore aperto, bisogna essere pronti a ricevere bordate non indifferenti che però fanno riflettere.
La valutazione, quella valutazione da cui noi docenti siamo ossessionati per ragioni burocratiche, diventa anche la loro unica preoccupazione. E tutti i bei discorsi sul fatto che loro non sono solo quel numero, che per noi sono tanto altro crollano miseramente di fronte all'obiezione - lucidissima e inoppugnabile - che tanto poi alla fine è solo il voto che definisce il loro successo o il loro insuccesso.

Di fronte a questo, anche le raccomandazioni rispetto all'uso dell'intelligenza artificiale risultano inutili: se ciò che conta è il risultato e l'uso della tecnologia può aiutare a raggiungerlo, qual è il motivo che dovrebbe spingere ad impegnarsi e a spendersi in prima persona per ottenerlo?
La soddisfazione personale? Il proprio bagaglio culturale? Sarebbe bello fosse così, ma in realtà né l'una né l'altro sembrano avere a che fare con la scuola.
E questo vale anche ad altri livelli.
L'altro giorno - raccontavo agli studenti - ho visto una sponsorizzazione sui social che mostrava una piattaforma in grado di preparare lezioni, presentazioni e verifiche: mi sono sinceramente chiesto quale diventerebbe a quel punto il ruolo del docente: dovrebbe limitarsi ad esporre in modo convincente? E a cosa servirebbe laurearsi e percorrere le strade tortuose che conducono all'insegnamento?
E poi, perché un laureando dovrebbe scrivere di proprio pugno una tesi, passando mesi in laboratorio, in biblioteca, sui libri, mettendo alla prova la propria capacità di pensiero, di scrittura ma anche di resistenza fisica e psicologica? A questa domanda trovo solo risposte che affondano le proprie radici in questioni di tipo morale. Ma la morale non è ciò che ti garantisce un posto di lavoro.

Vedo una mano alzata.
È quella di C.
Mi dice che la scuola sottrae tempo alle sue vere e numerose passioni e che scrive su un quaderno le cose che le interessano e le approfondisce per conto suo. "Ho voglia di conoscere" dice C.: è una frase bellissima, ma capisco che questa voglia non può essere soddisfatta dalla scuola. Fa male, ma lo capisco.
L. mi dice che studia per conto suo, che legge libri, cerca, riflette, annota e di quello che studia a scuola non le resta niente. 
La mia prima reazione è di stupore, ma poi penso che io, forse, alla sua età non era molto diverso, che i pomeriggi di studio erano finalizzati al voto da prendere e che delle cose studiate allora  - e abbandonate durante il percorso universitario - non ricordo davvero più nulla perché le rimuovevo appena passata la verifica.

Certo, per consolarsi e per dare un senso a ciò che un senso sembra non averlo si potrebbe citare Skinner - non il direttore della scuola elementare di Springfield ma Burrhus Frederic, lo psicologo - e ricordare che la cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto; si può anche dire che la scuola non ha il compito di insegnare ciò che è utile a trovare un lavoro, ma non può non lasciare un profondo senso di vuoto la presa di coscienza della percezione dell'impatto del proprio lavoro da parte di chi si ha di fronte e che fa ciò che deve spesso al solo scopo di raggiungere un voto.

A me è maggio che mi rovina
e anche settembre, queste due sentinelle
dell'estate: promessa e nostalgia

A questo punto non resta che attendere settembre (o quei rari momenti - che pure càpitano - in cui ti sembra che, no, il tuo lavoro in fondo non sia così inutile).

Franco Battiato, Il vuoto

18 maggio 2025

100 metri

T. è una mia collega.
T. mi bullizza: statisticamente, ogni dieci parole che mi rivolge ce n'è almeno una che contiene un'offesa.
T., però, ha anche tanti e rari pregi e rientra, perciò, nel sempre più ristretto novero delle persone che considero amiche, di quelle amicizie nate in un periodo della vita in cui sai di non avere quel bisogno di amici quasi compulsivo tipico dell'età adolescenziale; proprio per questo motivo, queste amicizie sono più preziose.
Tra i vari soprannomi che mi affibbia - le 'ngiurie, avrebbe detto Verga - la più recente è Bianconiglio. Effettivamente, come il personaggio di Alice nel paese delle meraviglie, plano sempre a velocità sostenuta sul pavimento a scacchi bianchi e grigi della mia scuola: l'unica cosa che potrebbe farmi rallentare è la volontà di assecondare i miei disturbi ossessivi e andare solo sui quadrati più chiari, come fanno i bambini che saltellano quando attraversano la strada per toccare solo le strisce bianche perché altrimenti finiscono nella lava. Poi, però, mi ricordo che non sono un bambino, che saltellando potrei rompermi qualcosa e che ho ancora un barlume di dignità da difendere per cui corro, cercando di non inciampare e di ricordarmi chi sto cercando, cosa devo chiedere, chi sono, dove sono quando sono assente di me, da dove vengo, dove vado.

In effetti T. ha ragione. 
Ho sempre fretta, ho la sensazione costante che il tempo non basti mai, che le cose da fare siano troppe e tutte indispensabili. Se, però, mi fermo a pensare - una delle poche cose che ha il potere di farmi rallentare - vedo - attorno a me - tante persone che - come me - sono perennemente sui blocchi di partenza per una gara dei 100 metri.
Avverto, avvertiamo tutti, la tensione di questa gara per cui ci prepariamo costantemente, che mette in discussione mesi di preparazione in un tempo brevissimo: siamo ai blocchi di partenza, i muscoli in tensione, lo starter spara e noi partiamo.
Ci capita di vincere, ci capita di perdere, rimaniamo spesso senza fiato; l'aspetto peggiore di tutti, però, è la sensazione di dover subito ricominciare a correre perché ci attende un'altra gara a cui - per carità - sentiamo di non poterci sottrarre e per cui dobbiamo dare il meglio per non deludere nessuna delle persone che crediamo siano lì con il cronometro in mano a misurare le nostre performance.
Anche nella scuola è così: ci ragionavo proprio ieri con un'altra persona la cui presenza è preziosa nella mia vita (lo so, sono fortunato). Si è ossessionati dal procedere a tappe forzate, dal voler arrivare ad un certo punto del libro, ad un dato argomento perché poi altrimenti i prossimi anni non c'è il tempo di fare altro. Per questo motivo, rotoliamo letteralmente su argomenti, questioni, temi, parole che invece richiederebbero pausa, riflessione, tempi lunghi per far sì che tutto questo abbia un senso  che sia più profondo del numero da inserire sul registro elettronico.
E invece corriamo.

Credo sia una caratteristica di questa nostra epoca: l'obiettivo è farci ammirare e per questo ammiriamo poco quello che c'è intorno a noi: siamo un Frecciarossa che vuole stupire chi lo guarda grazie alla sua livrea colorata, impeccabile e grazie alla sua velocità: la stessa velocità che non ci permette, però, di cogliere i particolari, le sfumature di colore del paesaggio, i volti delle persone che incrociamo. Magari ce ne facciamo un cruccio, ma corriamo ugualmente perché sentiamo di dover rispondere ad una società che sembra quasi demonizzare il tempo vuoto e improduttivo, dimenticando che persino Dio il settimo giorno si è riposato.

C'è solo un momento in cui sembra di poter rifiatare: quando siamo in vacanza. Vita lenta è uno degli hashtag da social che spunta puntualmente in estate (e che personalmente mi provoca irritazioni su ogni parte del corpo) e si usa quando si vuole sottolineare il lusso che ci si prende di non correre, se tutto va bene, per due settimane all'anno.
Ma siamo davvero sicuri che sia un lusso che non possiamo permetterci sempre e che sia corretto ridurre la lentezza a una prerogativa di anziani e bambini? 
E se iniziassimo a pensare alla nostra vita come una maratona?
Quarantaduemilacentonovantacinque metri: è  impossibile pensare di correre a perdifiato per tutto il percorso. Ci saranno alcuni momenti in cui dovremo dare tutti noi stessi e concentrarci sul nostro corpo senza degnare di uno sguardo ciò che c'è intorno e altri in cui potremo quasi fermarci per ammirare il paesaggio. Tornare indietro non è consentito, ma prendere fiato sì.
E magari, conclusa una maratona, se ne può anche correre un'altra, avendo, però, il bagaglio di esperienza acquisito durante la prima.
Adelante, presto, con juicio, avrebbe detto Manzoni. E capita anche a Manzoni, ogni tanto, di avere ragione.

Francesco de Gregori, Adelante adelante

11 maggio 2025

Mamma ma...

Oggi è decisamente uno di quei giorni.
Uno di quelli in cui non capisco i social, che traboccheranno di dichiarazioni d'amore verso le mamme che magari i social non li hanno neppure.
Ma fare gli auguri alla mamma è un trend topic - un argomento di tendenza (lo spiego per la mia, di mamma, che non ha mai avuto i social ma che dedica ogni settimana qualche minuto a leggere con attenzione queste righe), così come lo è stato la morte del Papa o il Conclave. E ai trend topic, si sa, non si rinuncia.
Foto, ricordi, frasi di circostanza.
Tutto legittimo, per carità, ma c'è qualcosa che non mi torna.

Siamo cresciuti in una società che ha sempre fatto credere alle donne che non diventare mamme le avrebbe lasciate incomplete.
Una società che ha fatto credere che l'istinto materno sia qualcosa che tutte hanno, e chi non lo ha lo deve simulare per evitare di incorrere nel biasimo altrui.
La mamma ha contorni eroici: è quella che consola e ascolta, che fa tante cose, tutte bene e spesso contemporaneamente. Che è comprensiva, dolce ed è attenta ad assecondare le esigenze altrui.
Per i credenti, è l'immagine terrena della Madonna, la mediatrice, colei che riesce a piegare la volontà divina.

Siamo cresciuti con questo mito e, da uomo, posso solo immaginare che fardello pesantissimo sia tutto questo per le donne che si sono sentite - e, probabilmente in misura minore, si sentono ancora - influenzate dal peso delle aspettative che grava su di loro.
Cosa succede se non divento mamma? Se sento che i bambini mi danno fastidio? Se non ho l'istinto materno?
E se, una volta diventata mamma, non sono sempre sorridente? Perdo la pazienza? Non riesco a fare tutto ciò che si aspettano che io faccia?

Con il tempo, ho imparato a vedere la mia mamma per quello che è, ovvero una persona con i suoi grandi pregi e i suoi limiti, quelli che hanno tutti; una persona che raramente esprime i propri sentimenti in maniera convenzionale perché, forse, non è mai stata abituata a farlo o forse perché è una persona estremamente riservata: ma è la persona che - quando sono in macchina - si raccomanda perennemente di fare attenzione e ad ogni cambio di stagione mi chiede se sto prendendo gli integratori.
Mia mamma è la persona con cui parlo di letteratura, di massimi sistemi, di vita e morte, di comportamenti umani, ma non è mai stata la cuoca perfetta, impeccabile, la padrona di casa in stile Bree van de Kamp di Desperate housewives per intendersi.
Raramente mi sono sentito compreso gratuitamente da lei (ti capisco perché sono tua madre e questo è il mio ruolo) ma c'è sempre stato un approccio razionale ai problemi: la formazione filosofica ha battuto nettamente il cuore di mamma.

Tutte queste aspettative disattese - come dovrebbe essere la mamma vs come è la mia mamma - mi hanno lasciato un po' di amaro in bocca in passato ma mi hanno lasciato una preziosa eredità per il presente.
Il regalo migliore che possiamo fare - almeno da grandi - è smettere di alimentare l'immaginario della mamma perfetta, che crea solo ansia da prestazione e provare a capire che la procreazione  - che non è indispensabile per rendere una donna tale - è quanto di più naturale possa esistere e non dà alcun superpotere.
Liberare le mamme dal dover essere: tutto qua.

Un altro regalo si può fare: dedicare una poesia.
La mia è questa: La madre di Giuseppe Ungaretti.

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

Fabrizio de André, Tre madri

04 maggio 2025

Vivere e lavorare

"L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro".
Mi rendo conto di aver ripetuto - e di aver sentito ripetere - tante volte questa frase ma di aver fatto fatica a coglierne a fondo il senso e la portata.
Un po' come accade per quelle formule che si ripetono stancamente e a lungo, quasi come litanie, e ciò fa sì che delle parole restino solo i suoni e si perdano i significati.
Il lavoro è labor, ovvero è fatica, ma è anche dignità.
In francese il lavoro è travaille, che suona proprio come il travaglio in italiano, ma non può essere pagato in visibilità.
Non deve essere un privilegio né una merce di scambio né tantomeno un'occasione di sfruttamento.
Ma non deve essere neanche una gabbia.

Non posso non pensare a ciò che siamo diventati.

Siamo quelli delle spunte blu, quelli che se non rispondi subito, se non sei sempre reperibile, se non sei performante, significa che sei fuori dai giochi o sei poco interessato.
Siamo quelli che perdono il fiato e la serenità pur di salire su tutti i treni che passano una volta sola (che poi, in realtà, potrebbe anche non essere male rimanere nel luogo in cui si sta). 
Ci hanno fatto credere di essere indispensabili, come se ogni lavoro fosse quello di un chirurgo che opera d'urgenza e a cuore aperto.
Ci hanno fatto credere che la reputazione sociale dipende da quanto denaro si riesce a procurare e non importa come e a danno di chi lo si fa.
Ci hanno detto e ripetuto che con la cultura non si mangia e che ogni estate le strutture ricettive mancano di personale perché i giovani non hanno voglia di lavorare e di fare sacrifici.

Passiamo buona parte della nostra vita lavorando o pensando al lavoro.
Il rischio di farlo diventare l'unica ragione di vita è dietro l'angolo ma va evitato. È come le sirene di Ulisse, soprattutto quando il lavoro ci dà soddisfazione, quando è quello in cui riusciamo, quando diventa il microcosmo in cui noi - come dei demiurghi- riusciamo a mettere ordine mentre intorno a noi è tutto un caos. Diventa la nostra zona di comfort che dobbiamo abbandonare per crescere; avere il coraggio di guardare fuori anche quando il fuori è più incerto, più difficile, meno controllabile.

Mi vengono in mente i versi di Cesare Pavese nella sua poesia Lavorare stanca

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.

Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

Il vero lavoro dell'uomo, per quello che questi versi mi suggeriscono, è vivere ed è forse proprio questo che, nella visione di Pavese, stanca. 
E forse il lavoro quotidiano, quello ufficiale, quello stipendiato, prevedibile e quindi controllabile, è solo una scusa nobile e una via di fuga che ci permette di vivere ai margini della vita sfiorandola e senza immergersi nel suo flusso: non posso vivere, devo lavorare.

Il teatro degli orrori, Lavorare stanca




Educare o imporre?

Era prevedibile, quasi scontato. E infatti è successo. È dei giorni scorsi la circolare con cui il Ministro dell'Istruzione invita a vie...