"A me è maggio che mi rovina".
La poesia - splendida - di Patrizia Cavalli, per me, potrebbe concludersi qui.
Incorniciati tra due feste tanto belle quanto ormai tristemente utopiche - quella dei lavoratori e quella della repubblica - i giorni di maggio scorrono inesorabili, pesanti come macigni e si portano dietro la stanchezza dei mesi di scuola e la frustrazione per quello che si sarebbe voluto fare e non si è fatto, per i risultati che si sarebbero voluti raggiungere e invece no.
Si rincorrono valutazioni, interrogazioni, recuperi, speranze, sensazioni di fallimento, sospiri di sollievo: si ha la sensazione perenne di annaspare, di non sapere a cosa dare priorità e si perde di vista tutto il resto.
E tutto questo riguarda docenti, studenti e famiglie. Tutti su una stessa zattera, ancora lontana dalla costa.
Ed è proprio quando sembra di non potersi fermare che è giusto farlo.
E io l'ho fatto l'altro giorno con i miei pupilli.
È naturale: quando si parla di scuola con i ragazzi e lo si fa a cuore aperto, bisogna essere pronti a ricevere bordate non indifferenti che però fanno riflettere.
La valutazione, quella valutazione da cui noi docenti siamo ossessionati per ragioni burocratiche, diventa anche la loro unica preoccupazione. E tutti i bei discorsi sul fatto che loro non sono solo quel numero, che per noi sono tanto altro crollano miseramente di fronte all'obiezione - lucidissima e inoppugnabile - che tanto poi alla fine è solo il voto che definisce il loro successo o il loro insuccesso.
Di fronte a questo, anche le raccomandazioni rispetto all'uso dell'intelligenza artificiale risultano inutili: se ciò che conta è il risultato e l'uso della tecnologia può aiutare a raggiungerlo, qual è il motivo che dovrebbe spingere ad impegnarsi e a spendersi in prima persona per ottenerlo?
La soddisfazione personale? Il proprio bagaglio culturale? Sarebbe bello fosse così, ma in realtà né l'una né l'altro sembrano avere a che fare con la scuola.
E questo vale anche ad altri livelli.
L'altro giorno - raccontavo agli studenti - ho visto una sponsorizzazione sui social che mostrava una piattaforma in grado di preparare lezioni, presentazioni e verifiche: mi sono sinceramente chiesto quale diventerebbe a quel punto il ruolo del docente: dovrebbe limitarsi ad esporre in modo convincente? E a cosa servirebbe laurearsi e percorrere le strade tortuose che conducono all'insegnamento?
E poi, perché un laureando dovrebbe scrivere di proprio pugno una tesi, passando mesi in laboratorio, in biblioteca, sui libri, mettendo alla prova la propria capacità di pensiero, di scrittura ma anche di resistenza fisica e psicologica? A questa domanda trovo solo risposte che affondano le proprie radici in questioni di tipo morale. Ma la morale non è ciò che ti garantisce un posto di lavoro.
Vedo una mano alzata.
È quella di C.
Mi dice che la scuola sottrae tempo alle sue vere e numerose passioni e che scrive su un quaderno le cose che le interessano e le approfondisce per conto suo. "Ho voglia di conoscere" dice C.: è una frase bellissima, ma capisco che questa voglia non può essere soddisfatta dalla scuola. Fa male, ma lo capisco.
L. mi dice che studia per conto suo, che legge libri, cerca, riflette, annota e di quello che studia a scuola non le resta niente.
La mia prima reazione è di stupore, ma poi penso che io, forse, alla sua età non era molto diverso, che i pomeriggi di studio erano finalizzati al voto da prendere e che delle cose studiate allora - e abbandonate durante il percorso universitario - non ricordo davvero più nulla perché le rimuovevo appena passata la verifica.
Certo, per consolarsi e per dare un senso a ciò che un senso sembra non averlo si potrebbe citare Skinner - non il direttore della scuola elementare di Springfield ma Burrhus Frederic, lo psicologo - e ricordare che la cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto; si può anche dire che la scuola non ha il compito di insegnare ciò che è utile a trovare un lavoro, ma non può non lasciare un profondo senso di vuoto la presa di coscienza della percezione dell'impatto del proprio lavoro da parte di chi si ha di fronte e che fa ciò che deve spesso al solo scopo di raggiungere un voto.
A me è maggio che mi rovina
e anche settembre, queste due sentinelle
dell'estate: promessa e nostalgia
A questo punto non resta che attendere settembre (o quei rari momenti - che pure càpitano - in cui ti sembra che, no, il tuo lavoro in fondo non sia così inutile).
Franco Battiato, Il vuoto