"Forse"
Lo sappiamo tutti: quel forse significa "no, ma visto che me lo stai proponendo con tanto entusiasmo non ho il coraggio di dirti che non ho voglia di rivedere gente che odiavo già venticinque anni fa e quindi lascio accesa una tenue speranza".
"Forse" è un avverbio che usiamo spesso ed ha una eleganza, una potenza e - come dicono quelli bravi - una polisemia (cioè la possibilità di assumere più significati) notevoli.
È un'arma e allo stesso tempo è un silenziatore.
È una carezza e allo stesso tempo uno schiaffo.
Eppure talvolta lo usiamo inconsci del suo valore.
Google e gli utenti della rete hanno deciso di attribuire questa frase a Giacomo Leopardi che, insieme a Bukowski e a Jim Morrison avrebbe pronunciato tutte le frasi possibili ed immaginabili secondo uno schema di questo tipo: a Giacomino toccherebbero le frasi poetiche o tristi, a Bukowski quelle sporcaccione e a Jim Morrison resterebbero le considerazioni filosofiche sulla morte.
Basta fare una piccola ricerca per capire che Leopardi non ha mai scritto la frase in questione e che questa attribuzione non è meno credibile della poesia che Flavia Vento ha raccontato esserle stata dettata in sogno dal poeta stesso (se non sapete a cosa io mi stia riferendo, potete colmare questo enorme vuoto cliccando qui). Un orecchio più fine saprebbe anche che l'aggettivo bella è troppo generico per essere leopardiano ma ciò che conta è il messaggio: il forse apre possibilità e se, come dice il poeta recanatese, il vero è brutto (e sulla paternità di questa citazione non vi è alcun dubbio), l'orizzonte indefinito aperto da questo avverbio è sicuramente più suggestivo.
Si può partire dall'etimologia di questa parola, che fornisce notevoli spunti di riflessione: forse deriva dal latino forsit che, a sua volta, deriva dall'espressione fors sit, ovvero sia il destino. La parola suona dunque come un affidarsi al caso che sceglie per noi e su cui noi non abbiamo alcun potere.
Penso poi alle varie declinazioni possibili di questa parola: può essere un riparo per chi lo dice e al contempo una condanna per chi lo ascolta. Forse provo questo sentimento per te: io che lo dico copro le mie carte; tu che lo ascolti ti maceri all'idea che quello che io dichiaro può essere vero e può non esserlo.
Penso ancora una volta a Leopardi, al forse che - pur non nominato - percorre quel capolavoro assoluto che è L'infinito (che vale sempre la pena rileggere)
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Forse dietro la siepe c'è tutto ciò che è negato all'uomo e la tensione verso questo altrove, infinito e indefinito nel tempo e nello spazio, è ciò che permette di toccare la felicità, costituzionalmente negata all'essere umano. Ed è questa la speranza che anima uomo e che è proprio aperta da questo forse inespresso.
Sempre Leopardi, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, fa dire al pastore
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
La possibilità di volare, la realizzazione del desiderio più profondo dell'uomo che affonda le radici già nel mito (basti pensare ad Icaro), forse, potrebbe rendere la vita dell'uomo più sopportabile. O forse no, non muterebbe di un millimetro la vita dell'uomo, destinata all'infelicità. Il forse, in questo caso, apre una strada che questa volta, però, non è percorribile dall'uomo: l'uomo non è destinato a volare - la speranza è destinata ad essere frustrata - e quindi gli è preclusa la possibilità di felicità legata a questo sogno.
Penso poi a Montale, e all'attesa della rivelazione del senso della vita dell'uomo
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Forse, ma non è detto che ciò accada, un giorno qualunque, inaspettatamente, all'uomo sarà possibile conoscere la realtà delle cose e si svelerà davanti ai suoi occhi quello che Calvino definisce il miracolo del nulla. Possiamo solo attendere questa sconvolgente rivelazione, ma non è detto che ciò accada. In questo caso vedo proprio il significato etimologico del termine: ciò accadrà se sarà il destino.
Penso, ancora, ad un altro forse che porta con sé sofferenza: è quello di Farinata degli Uberti, superbo capo ghibellino che Dante incontra tra gli eretici. Il politico, completamente calato nei ricordi della sua vita terrena tanto da ignorare la sofferenza che dovrebbe derivargli dalla tomba infuocata a cui è destinato per l'eternità, si rammarica dell'impossibilità per i suoi discendenti di tornare nell'amata Firenze. Appena vede Dante che, ancora vivo, cammina all'interno della città di Dite e lo sente parlare, gli si rivolge così:
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».
Essere stato forse troppo dannoso per la propria patria è ciò che rende la pena di Farinata insopportabile: il non poter più tornare indietro e il dubbio di aver danneggiato quella città per cui ha speso la sua vita sono la sua condanna più difficile da sopportare.
Le parole nascondono mondi: sta solo a noi avere la voglia di esplorarli.
Cake, Perhaps perhaps perhaps
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