Come mi capita spesso, quando non trovo le parole, sono le parole a trovare me.
L'incomprensione regna sovrana.
Ognuno di noi si sente capito da pochissime persone e solo ogni tanto.
Anche quelli che ci capiscono, non sempre hanno voglia di farlo.
Tutta questa enorme massa di comunicazione e tentativi di farci capire, di farci avvistare, alla fine si conclude con la consapevolezza che è difficilissimo essere compresi e ancora di più avvistati.
Le incomprensioni riguardano sia la Rete sia la cosiddetta realtà. La gente non ci capisce perché è nervosa, ha troppi fuochi accesi, nessuno può essere esaminato con attenzione benevola. Ognuno di noi è condannato per direttissima o rinviato a giudizio. Nessuno è disposto a giurare sulla nostra innocenza, nemmeno la persona che ci ama.
L'età dell'incomprensione produce depressioni e malattie fisiche. [...] Negli ospedali c'è il reparto per i cardiopatici, non c'è il reparto per gli incompresi.
Sarebbe ora di istituire una sorta di pronto soccorso psicologico in cui poter andare e dire: nessuno mi capisce, provate a farlo voi.
Tutte le discussioni che facciamo sull'emergenza climatica e su altri disastri provocati dall'uomo sono destinate a rimanere senza risposta se non ci occupiamo dello stato delle anime.
Primo punto: le persone hanno il diritto di essere almeno vagamente capite per quelle che sono. Sembra facile e invece non accade quasi mai.
Anche nelle scuole bisognerebbe occuparsi di questo problema: l'ora di religione non riscuote molto interesse, ci vorrebbe un tempo in cui sin da bambini si facciano esercizi per capire ed essere capiti.
Non si tratta di accrescere i nostri saperi, ma la nostra comprensione ed empatia.
Gli altri non sono morti e invece noi ci comportiamo come se questo fosse già accaduto, già assodato.
Le parole di Franco Arminio sono, come sempre, balsamo e sale sulle ferite.
Rifletto seriamente sul presente e sul futuro, su quello che vorrei fare e vorrei essere e su quello che sono e faccio.
Ultimamente ho la sensazione di infilare azioni e parole sbagliate come perline in un braccialetto, con metodo e concentrazione, e di errare - nella duplice accezione di sbagliare e di vagare - senza un fine e senza una fine.
Mi sembra di non saper fare anche quello che fino a ieri mi riusciva e di non avere più certezze su quello che avevo conquistato con fatica.
Accolgo lacrime ma penso di non avere gli strumenti per farlo e ripenso, sempre più convinto, alla necessità di un fronte comune per la difesa della parlarsi di persona: stiamo perdendo l'abitudine di guardarci negli occhi, preferendo sempre di più la via facile della comunicazione a distanza, anche con le persone a cui vogliamo bene. Ci schermiamo, sentiamo sempre di aver bisogno di protezione e non capiamo che lo spazio vuoto che noi creiamo e che ci fa sentire sicuri diventa spesso una voragine, impossibile da attraversare.
Infine arriva la razionalità che mi dà una pacca sulla spalla e mi dice che è tutto a posto, che è tutto risolvibile, che sono tante piccole cose che si possono mettere a posto: non sempre ci credo, ma annuisco.
Niccolò Fabi, Offeso