09 novembre 2025

Condannati

La conosco da ormai quattro anni, V., da prima che arrivasse nella mia scuola.
Avevo fatto un breve corso di introduzione al latino per ragazze e ragazzi delle scuole medie e lei era stata tra i pochi coraggiosi che - grazie a o nonostante il corso - aveva deciso di scegliere una scuola in cui si studia questa dannata lingua morta (ma ricordo sempre che il latino è vivo e i morti siete voi).
Sorridente, brava, pacata. Forse anche troppo per essere un'adolescente.
Di lei mi avevano parlato i suoi professori delle medie, incantati dalla sua dedizione allo studio; di lei ho continuato a sentir parlare i colleghi che ne hanno sempre tessuto le lodi.
Un quadro perfetto, senza un dettaglio fuori posto.
Troppo perfetto.
Fino all'altro giorno, quando un collega  è venuto in vicepresidenza a chiedermi quale sia la procedura che gli alunni devono seguire per chiedere il trasferimento e se esistano dei licei scientifici serali, perché una sua studentessa bravissima vorrebbe fare questo cambio di scuola.
Non so perché, ma ho pensato subito a V.
Era lei.

Dopo poco, la porta da me.
Mi rendo conto di non averla mai incrociata nei corridoi: siamo davvero tanti nella mia scuola e la fretta, le incombenze, fare in modo che nessuno si faccia male, fumi, usi il cellulare, urli, non aiutano certo la socializzazione.
V. è cambiata, è cresciuta, ma ne riconosco i colori e lo sguardo.
Sorride quando mi vede, ma gli occhi sono pieni di lacrime e mi racconta una storia di aspettative che sente premere su di sé, di un amore profondo per lo studio, soffocato, però, dai ritmi della scuola, di un affetto incondizionato da parte di mamma e papà, della paura di perdere la stima dei suoi compagni e dei professori se per una volta ottiene un risultato inferiore al suo standard, del terrore del proprio giudizio su sé stessa.
Mi racconta del suo percorso nella ginnastica artistica: confessa che l'infortunio che le ha impedito di continuare lo ha vissuto come una liberazione, sorride parlandomi del suo incarico da allenatrice perché in quel momento si sente libera.
Immagina il suo futuro: vorrebbe studiare astrofisica o biologia molecolare. L'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo rispetto ai quali l'uomo si sente sempre e perennemente fuori posto, ma nei confronti dei quali nutre sempre una grande curiosità.
La ascolto in silenzio, cercando di evitare le frasi di circostanza: concentro il mio sguardo sulle sue mani che si intrecciano su sé stesse, che toccano ossessivamente la collanina; le do una penna per evitare che continui a giocare nervosamente con le unghie.

E penso alla condanna che grava sulle spalle di chi è troppo bravo e al contempo troppo sensibile, alla mia frustrazione di voler dire la parola risolutiva che liberi istantaneamente V. da questo peso e di non riuscire a farlo; penso anche al mio essere (stato) cialtrone più che bravo e al mio perfezionismo che alle volte rasenta il patologico.
Rifletto sulla mancanza di una vera cultura del fallimento, che vada oltre gli slogan di Einstein rimandato in matematica - che poi è una banale leggenda metropolitana costruita ad hoc - e che ci insegni che siamo degni di amore, attenzione e stima anche se non raggiungiamo il massimo in tutti i campi.
Di video motivazionali in tal senso ce ne sono a iosa e alcuni di questi banalizzano la questione in modo esasperante; ciò che continuo a chiedermi io, invece, è quando e perché siamo diventati così ossessionati dalla bellezza, dal raggiungimento di ottimi risultati in tempi veloci, dall'essere performanti (uso volutamente questo termine fastidioso per esprimere un concetto che lo è altrettanto). 
La risposta ingenua e semplicistica potrebbe essere da quando ci sono i social ma non credo che la questione si possa risolvere così.

Non servono, credo, tanti discorsi: servirebbe una riflessione profonda e collettiva, ma temo che siamo tutti troppo presi dalle mille cose da fare, dal tempo che sembra non bastare mai (eppure è lo stesso che avevano i nostri genitori e i nostri nonni) per poterci prendere un attimo per riflettere seriamente su di noi - individualmente e come società -  e cambiare eventualmente direzione oppure accettare consapevolmente la strada che stiamo percorrendo
Quando e dove abbiamo perso la percezione del nostro essere umani e quindi costituzionalmente imperfetti e incompleti? 
La risposta non ce l'ho, ma mi riprometto davvero di pensarci.

V. è uscita dalla stanza, con un minimo accenno di sorriso perché credo di aver fatto il pagliaccio come al solito. O forse perché ha avuto anche solo per un attimo la percezione che le sue difficoltà, i suoi pensieri, le sue preoccupazioni sono comuni e che un peso, anche enorme, se portato da più persone, può diventare, forse, più sopportabile.

Colapesce e Dimartino, Splash






Condannati

La conosco da ormai quattro anni, V., da prima che arrivasse nella mia scuola. Avevo fatto un breve corso di introduzione al latino per raga...