23 febbraio 2025

Ciò che non si vede

Solitamente, alla domanda che spesso viene posta a me (come a tanti altri docenti) sul motivo che mi ha spinto ad insegnare rispondo in un solo modo: insegno perché non avrei saputo fare altro nella vita.

Forse è vero, forse no: mi è mancata (o non ho cercato) l’occasione di fare colloqui di lavoro, di mettermi in gioco in altri campi - anche se c’è qualcosa che sta bollendo in pentola e di cui non vedo l’ora di parlare.
Quando, però, vivo settimane come questa che è appena passata, capisco una volta di più - dopo vent’anni - che altro non avrei voluto fare.

Stando fuori dall’aula con ragazze e ragazzi mi rendo conto di quanto il luogo in cui ci si trova e i ruoli che ciascuno di noi - studenti e docenti - recita possano influenzare ogni aspetto della vita scolastica.
Superare fisicamente e ideologicamente la cattedra non è facile anche per chi come me la considera un tavolo come un altro e raramente ci si trincera dietro per difendere privilegi e poteri acquisiti una volta per tutte e indiscutibili.

Eppure andare fuori dai muri della scuola permette di vedere gli altri per ciò che realmente sono e non per ciò che ci si impone di mostrare e dimostrare a chi ci circonda. Gli abiti richiesti dalla scuola vengono dismessi per mostrarsi per ciò che si è: non si riesce a fingere troppo a lungo.

Amo l’arte, è difficile farmi uscire da musei e librerie, mi piace cantare (e - surprise surprise- sono anche intonato), ho un telefono con la batteria penosa, sono un fotografo penoso, non ho senso dell’orientamento e non vado d’accordo con Google maps: queste e tante altre cose hanno scoperto di me i miei studenti.
Cose che non si vedono, ma che rendono umani e non macchine che si limitano a diffondere conoscenze e a sparare valutazioni.

Da parte mia ho scoperto persone dalle mille sfaccettature, che hanno voglia di condividere il passato e ipotizzare il futuro, che non hanno timore di mostrare tenerezza e paura, appassionati di musica e di arte, che si commuovono ammirando libri, che decidono di spendere i propri soldi per entrare in una biblioteca; ho scoperto che guardando i soggetti di alcuni quadri si ricordavano cose dette in classe e l’emozione che si prova in quei momenti non si può spiegare.
Tutto quello di cui a scuola non c’è tempo di parlare. Tutto ciò che è veramente essenziale ma a scuola non si vede.

(Già immagino colleghi che sbuffano alzando gli occhi al cielo e ricordando quante responsabilità hanno gli accompagnatori nelle gite a fronte di alcun corrispettivo economico. Ho una visione romantica della cosa. Ne sono consapevole? Sì. Ho intenzione di cambiarla? No.)

Marco Mengoni, Esseri umani

16 febbraio 2025

Siamo tutti un po' Lucio

È il Sanremo del 1996.
Ho 16 anni, poche idee e molto confuse.
Ad un certo punto appare lei: rossetto e camicia rossi, pantaloni in pelle nera ed una voce mai sentita prima.
Chiamo subito mia mamma che mi sonnecchia accanto per condividere con lei questa scoperta.
È Carmen Consoli.
La sensazione di ascoltare per la prima volta una musica che parla  proprio a me ce l'ho ancora addosso ed è quella che ho rivissuto quest'anno, che di anni ne ho qualcuno in più, ascoltando Lucio Corsi.

Di lui è stato detto già tanto: personaggio atipico, di cui si sa poco o nulla, ha avuto il merito di smuovere qualcosa in tutti quelli che ritengono che la musica - come la poesia - possa e debba essere un'occasione per far trovare le parole utili a descrivere sentimenti che magari non sappiamo neppure di provare e non solo il mezzo per fare soldi e muovere le terga.
È quello a cui va riconosciuto il merito di aver scritto un pezzo che delimita in maniera netta due territori, quello del volevo essere e quello del sono: la zona intermedia tra questi due campi è terreno fertile per l'infelicità, è il luogo in cui crescono rigogliosi rimpianti e rimorsi che avvelenano le esistenze.

Volevo essere un duro
che non gli importa del futuro
Un robot
Un lottatore di sumo
Uno spaccino in fuga da un cane lupo
Alla stazione di Bolo
Una gallina dalle uova d’oro
Però non sono nessuno
Non sono nato con la faccia da duro
Ho anche paura del buio
Se faccio a botte le prendo
Così mi truccano gli occhi di nero
Ma non ho mai perso tempo
È lui che mi ha lasciato indietro

Quante volte ci ho pensato (e l'ho scritto in queste pagine): il desiderio di essere il cattivo dei film, il bello e dannato, l'uomo forte, decisionista, maschio alpha senza esitazioni, la partita di calcio alla domenica e la capacità di montare mobili ikea senza istruzioni. Tante volte la consapevolezza di non essere così mi ha quasi travolto, nella balorda convinzione di essere l'unico a non seguire un modello che è stato spacciato per anni come l'unico possibile.
Poi, fortunatamente, arriva la consapevolezza di non essere soli, e l'infelicità un po' si attenua.

Vivere la vita
È un gioco da ragazzi
Me lo diceva mamma ed io
Cadevo giù dagli alberi
Quanto è duro il mondo
Per quelli normali
Che hanno poco amore intorno
O troppo sole negli occhiali

La vita, che facile non è per nessuno, quella vita che alterna momenti di gioia incontenibile e di profondissimo dolore, può diventare un gioco da ragazzi quando ci si inizia ad accettare, quando quel sono fatto così non è la scusa per non cercare di migliorarsi ma la definizione di un preciso punto di osservazione del mondo e di un punto di partenza per il raggiungimento dei propri obiettivi.

Volevo essere un duro
Che non gli importa del futuro no
Un robot
Medaglia d’oro di sputo
Lo scippatore che t’aspetta nel buio
Il Re di Porta Portese
La gazza ladra che ti ruba la fede
Vivere la vita
È un gioco da ragazzi
Me lo diceva mamma ed io
Cadevo giù dagli alberi
Quanto è duro il mondo
Per quelli normali
Che hanno poco amore intorno
O troppo sole negli occhiali

Sì, può succedere di avere la sensazione di non eccellere in niente e di osservare con ammirazione ed invidia le vite degli altri che appaiono come lune senza buche; queste, però, sono Sirene, sono puro inganno, un’immagine esteriore che non fa altro che spingerci a scappare dalle nostre paure, viste come qualcosa da nascondere e non come qualcosa da affrontare a viso aperto.

Volevo essere un duro
Però non sono nessuno
Cintura bianca di Judo
Invece che una stella uno starnuto
I girasoli con gli occhiali mi hanno detto
“Stai attento alla luce”
E che le lune senza buche
Sono fregature
Perché in fondo è inutile fuggire
Dalle tue paure
Vivere la vita è un gioco da ragazzi
Io
Io volevo essere un duro
Però non sono nessuno
Non sono altro che Lucio
Non sono altro che Lucio

E sicuramente - che vogliamo ammetterlo o no - siamo tutti un po' Lucio.

09 febbraio 2025

La voglia di (r)esistere

Non lo avevo mai fatto prima. Non so perché.
L'altro giorno, sprezzante del pericolo, ho deciso di non andare nel bagno dei prof della mia scuola, ma di utilizzare i servizi igienici riservati agli studenti.
Mi sentivo un po' Indiana Jones (ma con la prostata ingrossata) e mi attendevo di trovare chissà cosa in quel bagno: soprattutto immaginavo di trovare muri decorati con simpatici falli, offese, dichiarazioni di amore o di guerra. Già mi vedevo raccontare ai miei colleghi quello che avevo visto lì, un po' come Alberto Angela che illustra le scoperte sensazionali su una nuova civiltà.
E invece nada, nisba, niente.
A parte qualche ACAB scritto con poca convinzione e un paio di sparuti "Forza Viola" c'era poco altro.
Eppure i bagni me li ricordavo diversi: cos'è successo nel frattempo?

Ricordo quando andavo all'università: gli orrendi muri piastrellati di blu chiaro dei bagni dell'Università degli studi di Bari fornivano un campionario di varia umanità. 
Dagli accostamenti tra l'Onnipotente e vari animali (tra cui vincevano nettamente i suini) alle rivendicazioni contro  docenti che - a parere degli scriventi - avevano abitudini sessuali socialmente poco accettabili, passando attraverso numeri di telefono da chiamare per trovare la felicità in varie forme, quei muri raccontavano storie ed esprimevano la volontà di esistere e in qualche modo di resistere al tempo. 
Quelle scritte indicavano la volontà di dire qualcosa a tutti e lasciare una traccia di sé che sarebbe durata almeno fino a quando qualcuno non avesse provveduto alla pulizia dei muri, quindi pressoché in eterno.
L'accostamento è un po' epico, ma mi vengono in mente i suggestivi graffiti pompeiani, quelle scritte sui muri che contenevano temi politici, offese personali, parodie letterarie, divieti e - immancabili - riferimenti sessuali talvolta ai limiti della decenza (per chi è curioso, qui c'è un piccolo ma significativo repertorio).

Penso anche ad un fenomeno molto più recente: il MeP, movimento per l'emancipazione della poesia, nato ormai 15 anni fa a Firenze (se volete informazioni potete trovarle qui). Propriamente non si tratta di scritte sui muri ma di testi incollati ovunque per strada e composti da poeti anonimi che si pongono come unico scopo quello di diffondere la poesia, scrollandole di dosso quegli strati ormai sedimentati di polvere su cui - va ammesso - l'insegnamento scolastico ha la sua grossa fetta di responsabilità.
Se, camminando per la città, rallentassimo un attimo alzassimo gli occhi dal cellulare, potremmo imbatterci in versi come questi:

Ho capito di amarti
in un giorno normale,
io ero banale
molto scostante,
non mi vedevo tra la gente.
Ho visto te.
E ti ho lasciato le mie parole
per poterti addormentare la sera
senza tenere la luce accesa,
sprofondare nel buio
e non avere paura.
Hai visto me.
E mi hai lasciato i tuoi occhi,
adesso anche io
mi vedo tra la gente.
Ho capito di amarti
una notte di pioggia,
chiara come tante
in cui li tuo sorriso
ne fu eco per sempre.
Ed oggi che amarti
è capire tutto e niente
ti ho lasciato questi miei silenzi,
nero su bianco
per ricordarti che
anche amare
bisogna saperlo fare.

Che l'uomo abbia bisogno di comunicare è un dato di fatto incontrovertibile, ma è evidente che il luogo in cui ciò avviene è cambiato. Ai muri reali si sono sostituiti i feed ovvero le pagine di Facebook prima e di X, Instagram e Tik Tok poi: è su quelle pagine che si dà sfogo all' hate speech, è tramite questi mezzi che si mostra ciò che di sé si ritiene essere la parte migliore, è così che si entra in contatto con gli altri, privandosi, però, del tatto, il senso primordiale dell'uomo, quello che fa avvertire - in senso letterale e metaforico - la consistenza delle cose. Anche la poesia trova spazio sui social: penso, ad esempio, a Rupi Kaur che riesce a conciliare poesia e velocità di fruizione in un modo spesso notevole, a pagine che pubblicano scritti di autori classici (Cesare Pavese sta vivendo una seconda giovinezza) o anche a trend di tik tok. L'altro giorno, spiegando Tanto gentile e tanto onesta pare ho scoperto che questa poesia è stata ripresa sui social ma ho rifiutato qualunque offerta da parte di chi voleva rendermi edotto sull'argomento. Ho troppo rispetto per il nasone autore di quei versi.

C'è poi un'altra cosa che avviene principalmente su Instagram e che segna uno spartiacque tra generazioni: la GenZ sembra non voler lasciare traccia di sé - limitandosi a pubblicare stories che in 24 ore spariscono - e voler avere il controllo di chi guarda ciò che pubblica. Che è poi l'esatto contrario di ciò che avviene con le scritte sui muri, accessibili a tutti, anonime sia nella produzione che nella fruizione e potenzialmente eterne.

È un cambio antropologico importante su cui riflettere, senza derubricarlo a cosa stupida che fanno i giovani.

Psicologi, Sui muri





02 febbraio 2025

Una piccola Odissea linguistica

Lo ricordo bene quel giorno, nonostante sia passato molto tempo.
1997. Ultimo anno di liceo, aula della 3^F, quando ancora gli studenti del classico si sentivano fighi perché avevano un modo diverso di contare gli anni di scuola; Invicta sulle spalle, Rocci in mano, vado trionfante da R., mia meravigliosa compagna di banco - in realtà era dietro di me per un machiavellico calcolo di utilità reciproca durante i compiti in classe distinti rigorosamente in file - e le dico: "Buongiórno (con la o chiusa)! Sei pronta per il compito di grèco (con la e aperta)?"
Più che il terrore per quel maledetto Tucidide che ci attendeva (e che ho sempre avuto l'impressione che scrivesse i suoi testi dopo aver messo serenamente le parole in un frullatore), più che il terrore - dicevo - potè lo stupore. R. cercò di trattenersi ma poi scoppiò in una fragorosa risata di fronte a me che gloriosamente cercavo di pronunciare le parole correttamente così come mi avevano insegnato la sera prima durante la lezione di dizione del corso teatrale che frequentavo con tanta passione.
Scegliere di parlare correttamente seguendo le regole della ortoepia (come dicono quelli bravi) era davvero una scelta di campo nella mia città almeno a quei tempi: se non dicevi cósa o paróla (che suonavano tipo cóusa e paróula) non eri riconosciuto dai pari. Semplicemente parlavi da ricchione (non da omosessuale, proprio da ricchione). Ma a me interessava poco ed andavo avanti nella mia battaglia contro una lingua di cui volevo liberarmi; la lotta è diventata ancora più serrata all'università perché mi sembrava che parlare di letteratura, di filologia, di archeologia con una cadenza assimilabile a quella di Pio e Amedeo rendesse triviali anche autori sublimi.

La mia vita personale e lavorativa mi ha poi portato nella ridente (!) Milano dove mi sono scontrato con una realtà diversa ma al contempo simile: superato il pregiudizio per cui le mie origini pugliesi mi avrebbero dovuto rendere simile nella parlata a Lino Banfi (approfitto per dire alle lettrici e ai lettori non pugliesi che nessuno in Puglia dice Madonna benedètta dell'Incoroneta), mi sono trovato mani e piedi in un mondo di persone che sbagliavano la pronuncia di ogni parola nella convinzione di essere sempre dalla parte del giusto. 
Nessuno percepiva la violenza che la lingua italiana subiva quando diceva trè (con la e non aperta ma spalancata) in perfetto stile Mike Bongiorno; nessuno inorridiva sentendo Benedetta Parodi che in uno spot pronuncia spórco sècco riuscendo nella titanica impresa di sbagliare due parole su due.
Vivevano nell'inconsapevolezza dell'errore e nella presunzione della superiorità per colpa di un sistema radiotelevisivo milanocentrico (soprattutto a partire dagli anni '80) che faceva sembrare normale sbagliare le pronunce perché tanto in televisione dicono così e la tv in quegli anni aveva sempre ragione.
Io in quel mondo ero un corpo estraneo, in qualche modo uno sradicato (mia perenne condizione esistenziale). Facevo mie le parole che Ungaretti scrive nella poesia Girovago

In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare

A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto

E me ne stacco sempre
straniero

Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute

Godere un solo
minuto di vita
iniziale

Cerco un paese
innocente

Per trovare un senso, per mescolarmi alla folla, ho iniziato anche inconsapevolmente a parlare come loro, pur non transigendo su alcune pronunce agghiaccianti tipo béne (con le e non chiusa, ma letteralmente strizzata). Ma tutto questo non è servito perché la vita, beffarda, mi ha portato a trasferirmi in Toscana.

E lì sono iniziati i dolori per me che ho una lingua profondamente stratificata, che conserva in sé, nelle parole e nella pronuncia, tutta la mia storia.

Sono iniziati i dolori perché questa terra è abitata da persone che respirano fin da piccoli la pronuncia corretta, parlano un italiano pressoché perfetto anche quando non hanno avuto l'opportunità di studiare (come si poteva, per esempio, non rimanere affascinati dal modo in cui parlava Pietro Pacciani?) e aggiungiamo anche, eufemisticamente, che non nascondono  la profonda consapevolezza che hanno di questa loro caratteristica.

Io, ancora una volta un corpo estraneo, tento di ricordare le pronunce corrette delle parole ma talvolta - spesso direbbe qualcuno - inciampo. In più, mi rendo conto che sto tirando su generazioni di rompiscatole: le mie alunne e i miei alunni - vessati dalle mie ossessioni sulla precisione nella scelta delle parole e sulla cura dell'espressione - prima sommessamente poi palesemente si vendicano correggendomi le pronunce sbagliate. Esèmpio, dialètto, tòppa, tètro sono solo le ultime che mi hanno corretto: ogni volta che lo fanno sono segretamente orgoglioso di loro perché la loro attenzione all'errore e il loro senso critico, esercitati in modo corretto, sono piccoli tasselli che li renderanno donne e uomini migliori.
Imparo costantemente e continuerò a farlo e sono grato alla vita che mi ha portato a fare questo viaggio perché, probabilmente, se fossi rimasto nella mia terra di origine avrei continuato a vivere, a studiare, a fare il mio lavoro ignorando tutto ciò e probabilmente rassegnandomi a parlare come i pugliesi che, come dice Dante nel De vulgari eloquentia, turpiter barbarizant, ovvero parlano in modo orribile. E Dante ha sempre ragione.

Ma un dubbio mi assale.

Se è vero, com'è vero, che la nostra lingua parla di noi, della nostra vita e delle nostre esperienze e ne conserva tracce, quale rapporto ci deve essere tra italiano standard, una lingua corretta ma asettica, e il cosiddetto idioletto, ovvero la lingua individuale, quella che ci identifica in maniera univoca proprio come se fosse una nostra impronta digitale?
È corretto rinunciare alla nostra individualità linguistica in nome di una lingua che è di tutti, ma in realtà non è di nessuno? Ripulendosi dagli errori di pronuncia si rinnega anche la propria storia?

A queste domande non so rispondere, almeno per ora.

Ma ho controllato e la pronuncia corretta è idiolètto. Almeno i miei piccoli rompiscatole non mi correggeranno.

Sud Sound System, Le radici ca tieni



 

Strumenti di distruzione di massa: il ricevimento genitori.

L'ansia da prenotazione: "Sei riuscito a trovare posto? Guarda che se non fai presto non trovi più disponibilità" L'imposs...