02 febbraio 2025

Una piccola Odissea linguistica

Lo ricordo bene quel giorno, nonostante sia passato molto tempo.
1997. Ultimo anno di liceo, aula della 3^F, quando ancora gli studenti del classico si sentivano fighi perché avevano un modo diverso di contare gli anni di scuola; Invicta sulle spalle, Rocci in mano, vado trionfante da R., mia meravigliosa compagna di banco - in realtà era dietro di me per un machiavellico calcolo di utilità reciproca durante i compiti in classe distinti rigorosamente in file - e le dico: "Buongiórno (con la o chiusa)! Sei pronta per il compito di grèco (con la e aperta)?"
Più che il terrore per quel maledetto Tucidide che ci attendeva (e che ho sempre avuto l'impressione che scrivesse i suoi testi dopo aver messo serenamente le parole in un frullatore), più che il terrore - dicevo - potè lo stupore. R. cercò di trattenersi ma poi scoppiò in una fragorosa risata di fronte a me che gloriosamente cercavo di pronunciare le parole correttamente così come mi avevano insegnato la sera prima durante la lezione di dizione del corso teatrale che frequentavo con tanta passione.
Scegliere di parlare correttamente seguendo le regole della ortoepia (come dicono quelli bravi) era davvero una scelta di campo nella mia città almeno a quei tempi: se non dicevi cósa o paróla (che suonavano tipo cóusa e paróula) non eri riconosciuto dai pari. Semplicemente parlavi da ricchione (non da omosessuale, proprio da ricchione). Ma a me interessava poco ed andavo avanti nella mia battaglia contro una lingua di cui volevo liberarmi; la lotta è diventata ancora più serrata all'università perché mi sembrava che parlare di letteratura, di filologia, di archeologia con una cadenza assimilabile a quella di Pio e Amedeo rendesse triviali anche autori sublimi.

La mia vita personale e lavorativa mi ha poi portato nella ridente (!) Milano dove mi sono scontrato con una realtà diversa ma al contempo simile: superato il pregiudizio per cui le mie origini pugliesi mi avrebbero dovuto rendere simile nella parlata a Lino Banfi (approfitto per dire alle lettrici e ai lettori non pugliesi che nessuno in Puglia dice Madonna benedètta dell'Incoroneta), mi sono trovato mani e piedi in un mondo di persone che sbagliavano la pronuncia di ogni parola nella convinzione di essere sempre dalla parte del giusto. 
Nessuno percepiva la violenza che la lingua italiana subiva quando diceva trè (con la e non aperta ma spalancata) in perfetto stile Mike Bongiorno; nessuno inorridiva sentendo Benedetta Parodi che in uno spot pronuncia spórco sècco riuscendo nella titanica impresa di sbagliare due parole su due.
Vivevano nell'inconsapevolezza dell'errore e nella presunzione della superiorità per colpa di un sistema radiotelevisivo milanocentrico (soprattutto a partire dagli anni '80) che faceva sembrare normale sbagliare le pronunce perché tanto in televisione dicono così e la tv in quegli anni aveva sempre ragione.
Io in quel mondo ero un corpo estraneo, in qualche modo uno sradicato (mia perenne condizione esistenziale). Facevo mie le parole che Ungaretti scrive nella poesia Girovago

In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare

A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto

E me ne stacco sempre
straniero

Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute

Godere un solo
minuto di vita
iniziale

Cerco un paese
innocente

Per trovare un senso, per mescolarmi alla folla, ho iniziato anche inconsapevolmente a parlare come loro, pur non transigendo su alcune pronunce agghiaccianti tipo béne (con le e non chiusa, ma letteralmente strizzata). Ma tutto questo non è servito perché la vita, beffarda, mi ha portato a trasferirmi in Toscana.

E lì sono iniziati i dolori per me che ho una lingua profondamente stratificata, che conserva in sé, nelle parole e nella pronuncia, tutta la mia storia.

Sono iniziati i dolori perché questa terra è abitata da persone che respirano fin da piccoli la pronuncia corretta, parlano un italiano pressoché perfetto anche quando non hanno avuto l'opportunità di studiare (come si poteva, per esempio, non rimanere affascinati dal modo in cui parlava Pietro Pacciani?) e aggiungiamo anche, eufemisticamente, che non nascondono  la profonda consapevolezza che hanno di questa loro caratteristica.

Io, ancora una volta un corpo estraneo, tento di ricordare le pronunce corrette delle parole ma talvolta - spesso direbbe qualcuno - inciampo. In più, mi rendo conto che sto tirando su generazioni di rompiscatole: le mie alunne e i miei alunni - vessati dalle mie ossessioni sulla precisione nella scelta delle parole e sulla cura dell'espressione - prima sommessamente poi palesemente si vendicano correggendomi le pronunce sbagliate. Esèmpio, dialètto, tòppa, tètro sono solo le ultime che mi hanno corretto: ogni volta che lo fanno sono segretamente orgoglioso di loro perché la loro attenzione all'errore e il loro senso critico, esercitati in modo corretto, sono piccoli tasselli che li renderanno donne e uomini migliori.
Imparo costantemente e continuerò a farlo e sono grato alla vita che mi ha portato a fare questo viaggio perché, probabilmente, se fossi rimasto nella mia terra di origine avrei continuato a vivere, a studiare, a fare il mio lavoro ignorando tutto ciò e probabilmente rassegnandomi a parlare come i pugliesi che, come dice Dante nel De vulgari eloquentia, turpiter barbarizant, ovvero parlano in modo orribile. E Dante ha sempre ragione.

Ma un dubbio mi assale.

Se è vero, com'è vero, che la nostra lingua parla di noi, della nostra vita e delle nostre esperienze e ne conserva tracce, quale rapporto ci deve essere tra italiano standard, una lingua corretta ma asettica, e il cosiddetto idioletto, ovvero la lingua individuale, quella che ci identifica in maniera univoca proprio come se fosse una nostra impronta digitale?
È corretto rinunciare alla nostra individualità linguistica in nome di una lingua che è di tutti, ma in realtà non è di nessuno? Ripulendosi dagli errori di pronuncia si rinnega anche la propria storia?

A queste domande non so rispondere, almeno per ora.

Ma ho controllato e la pronuncia corretta è idiolètto. Almeno i miei piccoli rompiscatole non mi correggeranno.

Sud Sound System, Le radici ca tieni



 

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