03 agosto 2025

Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - sono i libri a scegliere noi. Ed è forse questo il motivo per cui Pennac, nell'incipit del  suo saggio Come un romanzo, afferma perentoriamente che il verbo leggere non sopporta l'imperativo. Non possiamo leggere se non siamo scelti, o almeno richiamati da qualche libro come Odisseo dalle Sirene.
Mi è successo di nuovo.
Lunedì ero nella mia libreria del cuore ed improvvisamente mi torna alla mente il titolo di un romanzo: "Lo sbilico". Sicuramente me ne ha parlato qualcuno, ma l'informazione era stata messa da parte.
Lo chiedo.
Ce lo hanno.
Torno a casa.
Lo divoro letteralmente.
Mi viene solo un aggettivo per descrivere questo libro di Alcide Pierantozzi: necessario.

È un libro necessario perché permette a chi sfoglia queste pagine di entrare a fondo nella mente di una persona neurodivergente e con disabilità psichica.
Ma è anche un libro duro, che non normalizza, che non fa sconti, che non romanticizza la malattia mentale, ma la sbatte in faccia e non permette di girarsi dall'altra parte.
Questo libro - scrive Pierantozzi nella nota che accompagna il romanzo - è stato scritto in presa diretta, quasi come un diario di bordo della malattia, e racconta una verità molto spesso alterata dai farmaci e dai miei scompensi emotivi. [...] Questo non è un libro di autofiction.
Tutto vero, quindi, anche quando non è verosimile; tutto vero, quindi, ma chi legge deve avere la consapevolezza che ciò che legge non per forza è la verità, un po' come quando si affronta la lettura di quel caposaldo del Novecento che è La coscienza di Zeno
Il narratore che racconta - Zeno - è, come è stato detto dalla critica, un narratore inattendibile: il patto narrativo con il lettore è rotto in maniera irreversibile, non ci si può fidare di ciò che si legge ma bisogna esercitare il senso critico per capire ciò che è vero e ciò che non lo è.
Nel caso del romanzo di Pierantozzi, invece, si ha la percezione che sia vero anche ciò che palesemente vero non è: la descrizione delle allucinazioni del protagonista colpisce diretta la fantasia di chi legge, che percepisce la realtà di quelle immagini con la stessa forza con cui - forse - le ha percepite chi le racconta.
E il coinvolgimento del lettore è parte essenziale di questo libro.

Noi matti non abbiamo solo il diritto di essere soccorsi dai sani, ma anche il dovere di inceppare ogni giorno il mondo per metterlo in discussione ai loro occhi.

Il linguaggio è allo stesso tempo preciso e violento e rievoca la costruzione della realtà narrata che si ritrova nelle poesie di Alda Merini e Clemente Rebora o nei Canti Orfici di Dino Campana.
Ti perfora le narici l'odore di varichina e sapone di Marsiglia con cui il protagonista lava la schiena della nonna in campagna; quasi ti arrivano in faccia gli schizzi di sangue degli animali che vengono uccisi in campagna con una crudeltà quasi ancestrale; percepisci nel petto i bassi della musica assordante che arriva dallo stabilimento balneare mentre il protagonista sta cercando di scrivere. Ti sembra di vederlo quel polso che si muove continuamente; ti sembra di sentirlo quel vivivivivivi che fa sembrare il protagonista un handicappato.
È un libro che ti sfida, che ti costringe ad imparare parole nuove, quelle che servono per descrivere sensazioni mai provate perché l'indescrivibilità non esiste, bisogna solo attendere le parole giuste.
La ricerca della parola, quindi, non è mai fine a sé stessa: la parola giusta descrive e al contempo salva.
Dopo essere entrato in contatto - in maniera a dir poco rocambolesca - con un dizionario dei sinonimi e dei contrari, l'autore racconta come quella lettura gli abbia cambiato la vita:

Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l'ordine alfabetico. Quando leggevo cosí, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava.
Non capivo il significato di quasi nessuna parola. Non m'interessavano quelle facili, «casa», «topo», «ospedale», mentre le alternative dei sinonimi mi sconvolgevano.
La sera, quando tornavo dai campi, mi lavavo in una grande bagnarola azzurra che nonna lasciava scaldare al sole per tutto il pomeriggio. Era la stessa dove venivano messi i pomodori da cuocere per le conserve. Me ne stavo a mollo nell'acqua tiepida, in un retrodore di sugo e solventi, e pensavo a quelle parole.
- «Casa» si può dire anche «abituro, casaleccia, tugu-rio», - declamavo a voce alta. Non ero in grado di cogliere le diverse sfumature di significato, se non qualche volta, per intuito. M'interessava solo il suono. - «Complimento» si può dire anche «elogio, lode, omaggio». 
Conoscevo la parola «lode», e cosí cominciavo a capire che quando nonna mi faceva un complimento mi stava facendo anche una lode. M'insaponavo il collo dietro le orecchie ripetendo: - Anima, animula, spirito, essenza.
Ritmi precisi, accenti ben cadenzati. Diversi dal dialetto che si parlava in famiglia. Ogni parola del libretto, a leggerla a voce alta, sembrava ispessirsi di suono. Ogni parola era intera, non si spezzava come quelle che usavamo noi: «anda'», «fa'», «corre», «perde»..
A casa nostra si parlava un dialetto talmente stretto e antiquato da sfiorare il latinorum. Dove non arrivava il mugugno, la sbuffata, la bestemmia, le parole si spampanavano in un «Scí!» «Muvet!» «Piia quest e piia quell!»
Per tutt'altro verso riconoscevo che ciascuna parola del dirionarietto voleva indicarmi qualcosa di preciso. Quando le ripetevo al posto del «didin», sentivo che mi facevano da filtro, mi tenevano alla giusta distanza emotiva dalle cose. Dire «gronda» al posto di «grondaia» non era per niente la stessa cosa: «gronda» richiamava su di sé un'attenzione che mi distoglieva dalla risonanza lirica della grondaia in sé, della sua consistenza di lamiere, della sua forma sinusoidale altrimenti ingestibile per i miei sensi.
[...]
Mi accorsi che ripetere quelle strane parole mi piaceva fisicamente: avevano qualcosa di multisonante, qualcosa che riusciva a drenare il marcio attraverso lo strato corneo della pelle. Non avevo nessun interesse a usarle, non leggevo niente a parte le poesie di scuola, ma quelle parole nella mia testa azzurreggiavano, e inevitabilmente cominciarono a entrare nei miei discorsi. Le insegnanti non capivano da dove le tirassi fuori, i miei nonni mi dicevano "parla normale", i compagni di scuola ridevano. Quelle parole medicamentose, impazienti di essere comprese, pronte a diventare un mezzo, io le consideravo un fine, il compimento di un risultato.

E poi c'è la figura della madre, salvifica, quella del padre, il Negazionista, il fratello con una cosina sulla mano e l'altro fratello, vittima di tutta questa situazione; e i nonni, i medici e tutto il microcosmo che ha come centri di gravità Milano e l'Abruzzo, la palestra, la spiaggia e la biblioteca, in cui il protagonista si muove e di cui ad un certo punto anche chi legge entra a far parte.

Un libro necessario, duro, sfidante, con cui - soprattutto in questi tempi - credo sia indispensabile fare i conti.

Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi 2025

Fabrizio de André, Un matto

27 luglio 2025

Ciò che ci salva

Ci sarebbe tanto di cui parlare.
Di quanto ci piace spiare dal buco della serratura o ascoltare le conversazioni altrui (dico solo Coldplay e Raoul Bova). Per sentirci migliori degli altri, forse?
Di quanto la nostra memoria sia corta: lo scorso anno c'era stata una sollevazione popolare perché la gente aveva preferito "Temptation Island" al programma di Alberto Angela (se non ve lo ricordate, avevo dedicato un post alla questione che si può leggere qui); quest'anno, invece, milioni di persone a guardare queste storie, salvo poi ricordarci -  concluso il programma - di prendere posizione contro le storie tossiche di cui questo programma è un serbatoio notevole. Salvo poi ricordarci che la normalizzazione dell'ignoranza e delle reazioni violente da maschio alpha vanno condannate. Ma d'estate tutto sembra lecito.
Ci sarebbe da parlare dell'acaro che sorride perché il mondo è una polveriera (come direbbe Caparezza) e del nostro sentirci inadeguati e impotenti, quasi in colpa perché noi godiamo di una condizione di - relativa - pace.
Ma non voglio parlare di tutto questo.

Di fronte al mondo che non è come mai come vorremmo che fosse - nel micro e nel macro - oltre all'impegno personale che serve a rendere il proprio centimetro quadrato un posto migliore ci può aiutare la lettura.
Isolarsi alla ricerca di un equilibrio, di una quadratura del cerchio, anche quando intorno c'è rumore: a questo serve la lettura.
Cerchiamo le pagine ci risuonano, ci toccano, ci commuovono. O facciamoci trovare.
Questa poesia di Mariangela Gualtieri, ad esempio.

Sento il tuo disordine
e lo comparo al mio. C’è
somiglianza. C’è lo stesso slabbro
di ferite identiche. C’è tutta la voglia
di un passo largo in una terra
sgombra che non troviamo.
Sento il tuo respiro schiacciato
lo sento somigliante
ti sento piano morire
come me che non controllo
l’accensione del sangue.

Anch’io cerco una libertà che mi
sbandieri, una falcata
perfetta, uno stacco d’uccello
dal suo ramo, quando si butta
improvviso e poi plana.

Trovare elementi di somiglianza nella comune sofferenza, nel disordine, alla ricerca di una libertà che improvvisa che è la stessa dell'uccello che trova improvvisamente il coraggio di volare.
La poesia ci salva.

20 luglio 2025

Nelle puntate precedenti

L'anno trascorso non è stato facile.
Ricco, ma per nulla agevole.
È stato una corsa affannosa in alcuni momenti; in altri una sosta indesiderata quando avrei solo avuto voglia di allontanarmi.
Ho camminato su strade note, ampie e accoglienti, ma ho anche visto un crepaccio sotto di me: ho dovuto allargare le braccia e, come un equilibrista, mettere un piede davanti all'altro concentrandomi con lo sguardo fisso in avanti per non cadere.
Non ho camminato solo: c'è stato chi, come una lampadina che sta per fulminarsi, dopo avermi fatto luce ad intermittenza per un po', si è spento definitivamente; chi ha saputo adattare il proprio passo al mio per godere insieme il panorama; chi ha fatto sgambetti per il gusto di vedermi a terra; chi ogni tanto mi ha spinto in avanti per farmi smettere di fissare particolari inutili o mi ha impedito di proseguire per costringermi a guardare ciò che non volevo vedere.
Ora è il momento di rifiatare un attimo, ritrovare l'equilibrio perso, consultare la mappa e provare a capire dove andare. Ma è anche il momento di riguardare indietro ad una delle esperienze più significative fatte negli ultimi mesi, ovvero la radio.
Costruire mondi con le parole è un po' il mio lavoro e un po' la mia utopia. 
Fare questa stessa cosa in radio, dove mancano fisicamente gli occhi di chi guarda, dove non hai da insegnare ma da raccontare, dove non hai da mettere voti ma da accompagnare, è una bella sfida, che ho raccolto con tutta l'incoscienza che mi caratterizza (e no, non è colpa del fatto che sono gemelli).

Il punto di partenza per le puntate di "Mita è un mito" è stata storia delle parole della moda (potete riascoltare la puntata cliccando qui) che ho provato a ricostruire parlando alla velocità di Milly Carlucci sotto acido - no, ma non avevo l'ansia, stavo semplicemente provando a replicare nella vita reale un vocale whatsapp ascoltato in 2x.
Marzullianamente, poi, ci siamo chiesti non se la vita è un sogno o se i sogni aiutano a vivere meglio (questo lo lasciamo fare all'unico uomo sulla terra che può indossare camicie con strisce orizzontali), ma se siamo noi a inseguire la moda o se è la moda a inseguire noi. Se non sapete rispondere e volete fare bella figura con gli amici con i quali sicuramente affronterete questo discorso, potete trovare le risposte a tutte le domande cliccando esattamente qui
Abbiamo quindi cercato di scandagliare ogni ambito della moda e del suo rapporto con il mondo circostante: ci siamo addentrati nei meandri della psicologia, chiedendoci se l'abito fa il monaco (troverete qui la risposta che cercate), se è possibile parlare di etica nella moda (spoiler: la risposta è sì anche se ci sono ancora tanti passi da fare e ascoltando la puntata capirete il perché) e se e in che modo esiste una connessione tra moda e linguaggio (una delle puntate che mi ha divertito di più e credo si sia sentito. Ve la siete persa? Potete pentirvi e recuperarla qui).

Grande spazio è stato dato al rapporto che la moda ha con il cinema: il nome Edith Head vi dice qualcosa? No? Allora, come se fossimo L'edìpeo enciclopedico - la pagina della "Settimana enigmistica" che vanta il maggior numero di tentativi per capire cosa si fosse fumato chi le ha dato questo nome - ve lo raccontiamo noi in questa puntata. Per non parlare di quando abbiamo parlato di film che parlano di moda o vi abbiamo trascinato nell'abisso dei b-movies italiani, districandoci tra l'Esorciccio, supplenti e dottoresse ammiccanti e i congiuntivi sbagliati del ragionier Fantozzi.
Ma avremmo poi potuto tralasciare la letteratura o l'arte? Pensate di poter vivere senza sapere qualcosa di più del tramezzino di D'Annunzio o dell'abito aragosta di Salvador Dalì? No, non ci credo.
E poi la musica: da Kurt Cobain a Orietta Berti, da Madonna a Jula de Palma, da Missy Elliot alle Figlie del Vento. Abbiamo sfiorato decenni di musica, indagando sul rapporto che la moda ha con il rock internazionale, con il pop internazionale, con la cultura hip-hop e lo streetstyle fino a toccare l'abisso del nazional popolare parlando di Sanremo, argomento sul quale non capisco come mai non mi sia ancora stata conferita una laurea della prestigiosa università "Pippo Baudo" di Militello.

Insomma, tante, tantissime parole che hanno richiesto un po' di studio e parecchia sfacciataggine.
Avrei ancora parole di ringraziamento per tutte quelle persone che mi hanno aiutato, ascoltato, sostenuto, consigliato, ma i grazie più belli sono quelli che si dicono guardandosi negli occhi.
Consideratevi, comunque, tutti ringraziati.
Ci risentiamo a settembre?

Eugenio Finardi, La radio

13 luglio 2025

Rifiuto e vado avanti

È successo a Padova, a Belluno, a Firenze e a Treviso.
In questi ultimi giorni non si è parlato di altro se non di studentesse e studenti che da Trieste in giù - per fare citazioni di un certo spessore che non possono mai mancare fra queste righe - hanno deciso di non sostenere il colloquio dell'esame di Stato come forma di protesta verso l'intero sistema scolastico.
Su 524415 studenti che hanno sostenuto l'esame, 4 si sono ribellati.
Statisticamente è un numero irrilevante: il fenomeno ha riguardato lo 0,0008% dei maturandi, eppure è bastato questo a far parlare i media di "moda tra gli adolescenti", a far scaldare i motori della polemica gratuita da parte dei senes severi - che è un modo catullianamente elegante per definire i boomer che presidiano i social come gli umarell presidiano i cantieri - e a far intervenire anche il Ministro che non ha risparmiato toni draconiani.
Ma guardiamo il lato positivo.
Questi episodi hanno fatto sì che sui social si smettesse di parlare di mazzi di fiori, corone di alloro e di quanto i festeggiamenti al termine del colloquio siano inutili, per iniziare, invece, a concentrarsi sull'esame vero e proprio. Ovviamente la maggior parte delle opinioni sono state espresse da chi non ha la minima cognizione di causa ma parla con il solo scopo di dare voce al proprio livore nei confronti della scuola o, ancora peggio, nei confronti delle giovani generazioni; questo, però, fa parte del gioco e si impara a fare la tara. 
La verità che il problema sollevato non è affatto secondario.

Ne avevo parlato non più di qualche settimana fa: l'insofferenza di ragazze e ragazzi nei confronti del sistema scolastico è evidente a chiunque abbia a che fare - con un minimo di coscienza - con il mondo della scuola. 
Frequentare un liceo significa muoversi in un contesto le cui regole sono state stabilite oltre 100 anni fa, fatto salvo qualche ritocco qua e là che non sempre è stato migliorativo.
Ci sono molte cose che sono palesemente inattuali e i discorsi sui bei tempi andati, su quanto prima si fosse abituati al sacrificio, su quante cose si imparavano prima a scuola e su quanto ora i ragazzi siano molli, inadatti alla vita, agevolati mi procurano un fastidio fisico. Quei tempi sono andati. Stop.

La modalità di svolgimento dell'esame finale, poi, è stata rivista diverse volte soprattutto in anni più recenti (chi si ricorda l'anno delle buste in cui tutti i commissari si sentivano un po' come Mike Bongiorno quando chiedeva ai concorrenti se volevano la uno, la due o la trèèèèè?) ma nessun ministro è riuscito - almeno per ora - a trovare la formula giusta; d'altra parte, però, questo è il punto di arrivo di un percorso ma se è il percorso stesso a suscitare perplessità, è irrealistico aspettarsi che l'esame possa essere considerato appropriato.

La questione, comunque, è molto più complessa di quanto si possa immaginare: da una parte è forte la tentazione di derubricare l'atto di ribellione degli studenti come una furbata: chi ha rinunciato a sostenere il colloquio sapeva già che avrebbe comunque ottenuto il diploma grazie al punteggio ottenuto fino a quel momento quindi il suo gesto è stato puramente dimostrativo. Come se io proclamassi di voler fare la lotta ai negozi di alimentari dichiarando di non voler fare più la spesa, sapendo di avere in casa tutto il cibo necessario per sopravvivere.
Magari, le persone che ridicolizzano questa scelta sono le stesse che, in occasione della morte di Goffredo Fofi, hanno condiviso una delle sue frasi più emblematiche: "Quando trovo dei giovani bravi, il primo limite che cerco di smontare è il pensare di farcela da soli. Avrei anche quattro comandamenti: resistere, studiare, fare rete, rompere le scatole".
Se, però, rompono le scatole vanno subito rimessi a posto, altrimenti, come ha detto Gramellini sul "Corriere" poi non sono abituati a quello che succederà loro nel mondo del lavoro. 
Non credo che sia mai stato chiesto alla scuola di far abituare i ragazzi al mondo del lavoro: non credo sia questo il mio compito da educatore, quanto piuttosto quello - utopico quanto si vuole - di alimentare in loro il desiderio di sapere e la voglia di conoscere sempre di più. 
Sto sognando? Certo, ma trovo personalmente agghiacciante l'idea di doverli maltrattare perché un giorno saranno maltrattati dal docente universitario o dal datore di lavoro: non sarebbero studenti abituati, ma semplicemente studenti maltrattati due volte.

Per quanto possa sembrare sfrontato, l'atto di rifiutarsi di sostenere il colloquio - è innegabile - è comunque un atto di coraggio, coraggio che io, lo confesso senza problemi, alla loro età non avrei avuto e che non dubito che qualcuno dei miei pupilli avrebbe. Potremo dire, forse, di non aver fallito nel nostro compito se riusciremo a far sì che questo non avvenga, non perché lo avremo vietato ma perché avremo creato le condizioni perché ragazze e ragazzi non avvertano la necessità di farlo, o magari abbiano la capacità e la forza di argomentare e sostenere le proprie idee anche se questo non fa notizia.
L'atto di rifiutarsi di sostenere il colloquio, per quanto inutile, per quanto fatto - forse - per avere visibilità, non va sottovalutato: è un campanello d'allarme, è una richiesta di ascolto fatta - forse - nel contesto e nel modo sbagliato. La richiesta di porre attenzione a mettere al centro la persona e a non considerare la studentessa o lo studente un voto o un numero è sicuramente legittima ma, oggettivamente, richiede che ci sia un processo più lungo: è durante i 13 anni di scuola che deve avvenire tutto questo, non certamente nel momento dell'esame in cui - è un dato di fatto - quattro delle sette persone chiamate a giudicare vedono per la prima volta la persona che hanno di fronte.

L'ho detto altre volte e lo ribadisco perché ci credo profondamente: si può essere empatici anche senza essere molli, si possono usare i voti ed essere allo stesso tempo attenti alla valutazione della persona.
E no, non serve neppure minacciare di bocciare chi boicotta l'esame: o se ne cambia totalmente l'impianto oppure, visto che ora funziona come una raccolta punti del supermercato, non può essere bocciato chi ha raggiunto il numero necessario di punti per ottenere il diploma. A questo punto, ha più senso l'ironica proposta di Valentina Petri, la docente che c'è dietro la pagina "Portami il diario", di inserire un sistema di bonus e malus per la valutazione in stile Fantasanremo.

La soluzione non è facile e sicuramente non si può affrontare con proclami social.
I ragazzi rifiutano di sostenere l'esame, gli adulti si rifiutano di ascoltarli.
E da due rifiuti raramente nasce qualcosa di buono.

Fiorella Mannoia, Il peso del coraggio







06 luglio 2025

Aspetto

Aspettare.
Si pensa che questo verbo sia strettamente legato al tempo, e invece è legato ad altro.
Etimologicamente "aspettare" significa guardare intensamente e con attenzione nella direzione da cui ci aspettiamo che arrivi qualcosa o qualcuno.
Quando aspettiamo, guardiamo in una direzione nell'attesa - spasmodica o paziente - che arrivi ciò che attendiamo.
Talvolta ci sentiamo come Giovanni Drogo, il sottotenente protagonista del capolavoro di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, che spende la propria vita nella Fortezza Bastiani aspettando lo scontro con i Tartari che potrebbe dare un senso alla propria vita.
Altre volte ci sentiamo come Giacomo Leopardi che lascia spazio all'immaginazione e aspettando, ovvero, guardando - senza realmente vedere - oltre la siepe, naufraga dolcemente, fino ad annullarsi, nel mare dell'infinito.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Sono sul monte Tabor, accanto al poeta e mi concentro su ciò che non vedo.
Ciò che non vedo è ciò che non ho.
Non avere provoca, contestualmente, desiderio e sofferenza
Desiderio e sofferenza, quindi, sono intimamente connessi.

Aspettare, cioè continuare a guardare fissamente nella direzione da cui aspetto che arrivi ciò che potrebbe placarli, significa, però, che  - forse - ho fiducia nel fatto che prima o poi arriverà,
Potrei muovermi, andare nella direzione verso cui guardo, ma so che si tratta di un viaggio che richiede un equipaggiamento importante e quindi, prima di preparare i bagagli, studio con attenzione l'itinerario sulla mappa.
E aspetto.
Aspetto che passi questo lungo periodo di felicità coatta, generalizzata, esibita.
Che ferite - antiche e recenti - si rimarginino.
Aspetto di trovare un equilibrio e di riuscire a dare un senso al mondo.
Di dare un senso a me stesso nel mondo.
Di riuscire ad accettare che la felicità di qualcuno non può e non deve minare la felicità altrui.
Aspetto di capire che le persone non si identificano solo con le loro azioni.
Aspetto la maglia rotta nella rete.
Aspetto l'alba, cercando di godermi la notte.

Carmen Consoli, Guarda l'alba

29 giugno 2025

Camicia bianca

Il passo incerto. Il sorriso timido.
Entrano in una stanza calda, dove due ventilatori cercano inutilmente di dare un po' di sollievo, dove arrivano i rumori della strada, le urla dei bambini della scuola dell'infanzia vicina, il frinire delle cicale.
Solitamente indossano camicie bianche: è il loro modo - credo - per far capire che ci tengono a questo momento, che danno il giusto valore all'esame che stanno affrontando, il primo per molti di loro che nel 2020 hanno frequentato gli ultimi mesi della terza media dalla loro cameretta.
Sono i ragazzi che stanno affrontando l'Esame di Stato.
E poi c'è la commissione.
Sette sconosciuti, abituati a lavorare singolarmente, che per qualche settimana si trovano costretti a condividere decisioni, interrogazioni e valutazioni. Ogni tanto - soprattutto nei primi giorni - si prova la stessa sensazione che si percepisce quando si entra in ascensore: sorrisi imbarazzati, silenzi da riempire, frasi di circostanza. Poi, quando ci si abitua alla presenza degli altri, si è ormai arrivati al piano. E quindi sui social proliferano foto di pacchi con imbarazzanti sigilli di ceralacca e di gruppi di persone stanche e sorridenti che si sono ripromesse di vedersi per andare a mangiare una pizza. Cosa che nella maggior parte delle volte non succede.

La firma che ne attesta la presenza, uno sguardo alla LIM su cui c'è il materiale da cui partire per l'orale e si parte. 
Mentre raccoglie le idee, guardo con curiosità l'aula in cui troneggia la lavagna: l'ardesia e il gesso sono scomparsi, ma l'elettronica contrasta con le cartine geografiche appese ai muri da chissà quanto, con qualche crepa, con gli infissi di legno, imponenti e un po' scrostati. C'è il silenzio che precede ogni momento importante, interrotto dal rumore dei ventagli, dai maestra maestraaa che arrivano da fuori e dalla sirena di un'ambulanza in lontananza, che ci avvisano che la vita fuori continua anche se siamo in questa bolla.
Rifletto sul fatto che li chiamiamo candidati, come coloro che nell'antica Roma indossavano vesti bianche, candide, appunto, per raccogliere i voti in occasione delle elezioni. Sorrido pensando al fatto che, tolte le elezioni, tutto è rimasto uguale.

Con la voce bassa e un po' insicura inizia a parlare di ciò che sa. 
Si muove - talvolta in maniera impacciata, talvolta no - tra argomenti che lo hanno fatto annoiare, talvolta piangere, raramente entusiasmare: ha passato ore sui libri, chiedendosi quando gli sarà ancora utile nella vita ricordarsi della vecchia imbellettata di Pirandello, delle derivate, di Dulce et decorum est o dei simboli che sono presenti in Guernica.
Chissà quante volte ha pensato che la scuola no, non dovrebbe trattare solo di eventi passati, ma anche e soprattutto di quello che sta succedendo: perché è in atto il genocidio in Palestina? Perché tante donne vengono uccise? Perché il mondo è schiavo di Trump? Come fare a risolvere il riscaldamento globale che è un problema soprattutto per chi non ha l'agio di avere l'aria condizionata a casa e magari lavora sotto il sole per ore?
Non è il momento di confrontarsi su questo - anche se sarebbe sempre utile ricordare che il compito, utopico ma non irrealizzabile, della scuola è dare strumenti universali per interpretare la realtà - e lo ammiro mentre passa da un argomento all'altro, mentre cita nomi, date e nozioni che forse un tempo avevo anche io ma che poi ho rimosso.
Vedo una giovane donna o un giovane uomo che ha davanti a sé ancora tutte le possibilità, può scegliere se percorrere strade note o se tracciare sentieri nuovi: vorrei solo dire di non aver paura di sbagliare, che si è sempre in tempo per tornare indietro, ma mi limito a stringergli la mano perché i tempi sono stretti e bisogna andare altro.

E poi capita che di incontrarli nuovamente alla fine della mattinata quando, dismesso l'abito da esame, hanno indossato nuovamente i loro vestiti: ne percepisco il senso di leggerezza e di liberazione, ne vedo il sorriso e viene da sorridere anche a me.

 Jackson Browne, The road

22 giugno 2025

Educare o imporre?

Era prevedibile, quasi scontato. E infatti è successo.

È dei giorni scorsi la circolare con cui il Ministro dell'Istruzione invita a vietare i cellulari anche nelle scuole secondarie di secondo grado, alla luce di studi che dimostrano quanto sia dannosa la dipendenza da smartphone negli adolescenti e quanto possa ledere alle loro capacità cognitive. Fatte salve alcune eccezioni, quindi, studentesse e studenti dovranno rinunciare ai propri dispositivi per tutto il tempo scuola.
Se da un lato il provvedimento ha sicuramente ragione di esistere, dall'altro non può non suscitare domande a cui - beninteso - è difficile dare una risposta certa e universalmente valida.

In primo luogo - e qui rubo una frase di una fra i miei pupilli con cui qualche giorno fa si affrontava l'argomento - dovremmo chiederci quale sia il ruolo della scuola: educare o imporre? Etimologicamente, quindi, la scuola deve tirare fuori ciò che nelle ragazze e nei ragazzi c'è già o dare delle regole a cui obbedire ciecamente, senza abituare ad esercitare lo spirito critico?
Certo, ogni tanto è forte la tentazione di dettare delle regole e, di fronte alle spiegazioni, usare il latino come fa Don Abbondio con Renzo; alcune volte, forse, è anche indispensabile, quando si tratta di norme rispetto alle quali non può e non deve esserci discussione.
Ci sono, però, casi - e questo è uno di quelli - in cui il confronto è fondamentale: educare ad un uso consapevole della tecnologia, insegnare a guardarsi fisicamente attorno e a confrontarsi con chi ha una consistenza reale, far vedere a ragazze e ragazzi che ci sono altri modi per cercare informazioni è sicuramente più faticoso e meno immediato rispetto a vietare l'uso dello strumento, ci espone a confronti serrati, ma permette poi di arrivare a soluzioni più o meno condivise che suonano  - comunque - più accettabili rispetto ad un generico non si fa.
Sul discorso della distrazione ci sarebbe una lunghissima parentesi da aprire: quando andavo a scuola non avevo ovviamente lo smartphone ma questo non mi impediva di distrarmi, leggendo le battute sulla Smemoranda, guardando fuori dalla finestra, chiacchierando con compagni vicini e lontani. La distrazione, il desiderio di essere altrove è proprio dell'età e solo in parte è legato al discorso della tecnologia.
Non credo, inoltre, che questa decisione possa risolvere i problemi di dipendenza dal cellulare: concluse le 5 o 6 ore di scuola, gli smartphone si riaccenderanno e - in mancanza di educazione digitale - continueranno ad essere usati allo stesso modo in cui venivano utilizzati prima del divieto. Sembra, quindi, solo un modo per allontanare - almeno formalmente - il problema dall'istituzione scolastica che, in questo modo, si pulisce la coscienza.

E poi mi chiedo un'altra cosa: agli adulti è tutto concesso? È concesso usare male i social media per diffondere odio e farsi megafono di fake news? È concesso passare del tempo sul posto di lavoro a fare acquisti o a scegliere la meta per le prossime vacanze? Il problema sono davvero solo gli adolescenti?
Qualora questo provvedimento dovesse effettivamente prendere corpo, credo che sarei il primo - indipendentemente da quanto poi verrà stabilito a livello centrale - a privarmi del cellulare durante l'intero orario di lavoro, non fosse altro che per una questione di equità e di coerenza rispetto a chi di questo strumento viene privato.
Resta il fatto che mi sembra un modo furbo di mettere la polvere sotto il tappeto per dare la parvenza di una stanza perfettamente pulita.




Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - son...