27 luglio 2025

Ciò che ci salva

Ci sarebbe tanto di cui parlare.
Di quanto ci piace spiare dal buco della serratura o ascoltare le conversazioni altrui (dico solo Coldplay e Raoul Bova). Per sentirci migliori degli altri, forse?
Di quanto la nostra memoria sia corta: lo scorso anno c'era stata una sollevazione popolare perché la gente aveva preferito "Temptation Island" al programma di Alberto Angela (se non ve lo ricordate, avevo dedicato un post alla questione che si può leggere qui); quest'anno, invece, milioni di persone a guardare queste storie, salvo poi ricordarci -  concluso il programma - di prendere posizione contro le storie tossiche di cui questo programma è un serbatoio notevole. Salvo poi ricordarci che la normalizzazione dell'ignoranza e delle reazioni violente da maschio alpha vanno condannate. Ma d'estate tutto sembra lecito.
Ci sarebbe da parlare dell'acaro che sorride perché il mondo è una polveriera (come direbbe Caparezza) e del nostro sentirci inadeguati e impotenti, quasi in colpa perché noi godiamo di una condizione di - relativa - pace.
Ma non voglio parlare di tutto questo.

Di fronte al mondo che non è come mai come vorremmo che fosse - nel micro e nel macro - oltre all'impegno personale che serve a rendere il proprio centimetro quadrato un posto migliore ci può aiutare la lettura.
Isolarsi alla ricerca di un equilibrio, di una quadratura del cerchio, anche quando intorno c'è rumore: a questo serve la lettura.
Cerchiamo le pagine ci risuonano, ci toccano, ci commuovono. O facciamoci trovare.
Questa poesia di Mariangela Gualtieri, ad esempio.

Sento il tuo disordine
e lo comparo al mio. C’è
somiglianza. C’è lo stesso slabbro
di ferite identiche. C’è tutta la voglia
di un passo largo in una terra
sgombra che non troviamo.
Sento il tuo respiro schiacciato
lo sento somigliante
ti sento piano morire
come me che non controllo
l’accensione del sangue.

Anch’io cerco una libertà che mi
sbandieri, una falcata
perfetta, uno stacco d’uccello
dal suo ramo, quando si butta
improvviso e poi plana.

Trovare elementi di somiglianza nella comune sofferenza, nel disordine, alla ricerca di una libertà che improvvisa che è la stessa dell'uccello che trova improvvisamente il coraggio di volare.
La poesia ci salva.

20 luglio 2025

Nelle puntate precedenti

L'anno trascorso non è stato facile.
Ricco, ma per nulla agevole.
È stato una corsa affannosa in alcuni momenti; in altri una sosta indesiderata quando avrei solo avuto voglia di allontanarmi.
Ho camminato su strade note, ampie e accoglienti, ma ho anche visto un crepaccio sotto di me: ho dovuto allargare le braccia e, come un equilibrista, mettere un piede davanti all'altro concentrandomi con lo sguardo fisso in avanti per non cadere.
Non ho camminato solo: c'è stato chi, come una lampadina che sta per fulminarsi, dopo avermi fatto luce ad intermittenza per un po', si è spento definitivamente; chi ha saputo adattare il proprio passo al mio per godere insieme il panorama; chi ha fatto sgambetti per il gusto di vedermi a terra; chi ogni tanto mi ha spinto in avanti per farmi smettere di fissare particolari inutili o mi ha impedito di proseguire per costringermi a guardare ciò che non volevo vedere.
Ora è il momento di rifiatare un attimo, ritrovare l'equilibrio perso, consultare la mappa e provare a capire dove andare. Ma è anche il momento di riguardare indietro ad una delle esperienze più significative fatte negli ultimi mesi, ovvero la radio.
Costruire mondi con le parole è un po' il mio lavoro e un po' la mia utopia. 
Fare questa stessa cosa in radio, dove mancano fisicamente gli occhi di chi guarda, dove non hai da insegnare ma da raccontare, dove non hai da mettere voti ma da accompagnare, è una bella sfida, che ho raccolto con tutta l'incoscienza che mi caratterizza (e no, non è colpa del fatto che sono gemelli).

Il punto di partenza per le puntate di "Mita è un mito" è stata storia delle parole della moda (potete riascoltare la puntata cliccando qui) che ho provato a ricostruire parlando alla velocità di Milly Carlucci sotto acido - no, ma non avevo l'ansia, stavo semplicemente provando a replicare nella vita reale un vocale whatsapp ascoltato in 2x.
Marzullianamente, poi, ci siamo chiesti non se la vita è un sogno o se i sogni aiutano a vivere meglio (questo lo lasciamo fare all'unico uomo sulla terra che può indossare camicie con strisce orizzontali), ma se siamo noi a inseguire la moda o se è la moda a inseguire noi. Se non sapete rispondere e volete fare bella figura con gli amici con i quali sicuramente affronterete questo discorso, potete trovare le risposte a tutte le domande cliccando esattamente qui
Abbiamo quindi cercato di scandagliare ogni ambito della moda e del suo rapporto con il mondo circostante: ci siamo addentrati nei meandri della psicologia, chiedendoci se l'abito fa il monaco (troverete qui la risposta che cercate), se è possibile parlare di etica nella moda (spoiler: la risposta è sì anche se ci sono ancora tanti passi da fare e ascoltando la puntata capirete il perché) e se e in che modo esiste una connessione tra moda e linguaggio (una delle puntate che mi ha divertito di più e credo si sia sentito. Ve la siete persa? Potete pentirvi e recuperarla qui).

Grande spazio è stato dato al rapporto che la moda ha con il cinema: il nome Edith Head vi dice qualcosa? No? Allora, come se fossimo L'edìpeo enciclopedico - la pagina della "Settimana enigmistica" che vanta il maggior numero di tentativi per capire cosa si fosse fumato chi le ha dato questo nome - ve lo raccontiamo noi in questa puntata. Per non parlare di quando abbiamo parlato di film che parlano di moda o vi abbiamo trascinato nell'abisso dei b-movies italiani, districandoci tra l'Esorciccio, supplenti e dottoresse ammiccanti e i congiuntivi sbagliati del ragionier Fantozzi.
Ma avremmo poi potuto tralasciare la letteratura o l'arte? Pensate di poter vivere senza sapere qualcosa di più del tramezzino di D'Annunzio o dell'abito aragosta di Salvador Dalì? No, non ci credo.
E poi la musica: da Kurt Cobain a Orietta Berti, da Madonna a Jula de Palma, da Missy Elliot alle Figlie del Vento. Abbiamo sfiorato decenni di musica, indagando sul rapporto che la moda ha con il rock internazionale, con il pop internazionale, con la cultura hip-hop e lo streetstyle fino a toccare l'abisso del nazional popolare parlando di Sanremo, argomento sul quale non capisco come mai non mi sia ancora stata conferita una laurea della prestigiosa università "Pippo Baudo" di Militello.

Insomma, tante, tantissime parole che hanno richiesto un po' di studio e parecchia sfacciataggine.
Avrei ancora parole di ringraziamento per tutte quelle persone che mi hanno aiutato, ascoltato, sostenuto, consigliato, ma i grazie più belli sono quelli che si dicono guardandosi negli occhi.
Consideratevi, comunque, tutti ringraziati.
Ci risentiamo a settembre?

Eugenio Finardi, La radio

13 luglio 2025

Rifiuto e vado avanti

È successo a Padova, a Belluno, a Firenze e a Treviso.
In questi ultimi giorni non si è parlato di altro se non di studentesse e studenti che da Trieste in giù - per fare citazioni di un certo spessore che non possono mai mancare fra queste righe - hanno deciso di non sostenere il colloquio dell'esame di Stato come forma di protesta verso l'intero sistema scolastico.
Su 524415 studenti che hanno sostenuto l'esame, 4 si sono ribellati.
Statisticamente è un numero irrilevante: il fenomeno ha riguardato lo 0,0008% dei maturandi, eppure è bastato questo a far parlare i media di "moda tra gli adolescenti", a far scaldare i motori della polemica gratuita da parte dei senes severi - che è un modo catullianamente elegante per definire i boomer che presidiano i social come gli umarell presidiano i cantieri - e a far intervenire anche il Ministro che non ha risparmiato toni draconiani.
Ma guardiamo il lato positivo.
Questi episodi hanno fatto sì che sui social si smettesse di parlare di mazzi di fiori, corone di alloro e di quanto i festeggiamenti al termine del colloquio siano inutili, per iniziare, invece, a concentrarsi sull'esame vero e proprio. Ovviamente la maggior parte delle opinioni sono state espresse da chi non ha la minima cognizione di causa ma parla con il solo scopo di dare voce al proprio livore nei confronti della scuola o, ancora peggio, nei confronti delle giovani generazioni; questo, però, fa parte del gioco e si impara a fare la tara. 
La verità che il problema sollevato non è affatto secondario.

Ne avevo parlato non più di qualche settimana fa: l'insofferenza di ragazze e ragazzi nei confronti del sistema scolastico è evidente a chiunque abbia a che fare - con un minimo di coscienza - con il mondo della scuola. 
Frequentare un liceo significa muoversi in un contesto le cui regole sono state stabilite oltre 100 anni fa, fatto salvo qualche ritocco qua e là che non sempre è stato migliorativo.
Ci sono molte cose che sono palesemente inattuali e i discorsi sui bei tempi andati, su quanto prima si fosse abituati al sacrificio, su quante cose si imparavano prima a scuola e su quanto ora i ragazzi siano molli, inadatti alla vita, agevolati mi procurano un fastidio fisico. Quei tempi sono andati. Stop.

La modalità di svolgimento dell'esame finale, poi, è stata rivista diverse volte soprattutto in anni più recenti (chi si ricorda l'anno delle buste in cui tutti i commissari si sentivano un po' come Mike Bongiorno quando chiedeva ai concorrenti se volevano la uno, la due o la trèèèèè?) ma nessun ministro è riuscito - almeno per ora - a trovare la formula giusta; d'altra parte, però, questo è il punto di arrivo di un percorso ma se è il percorso stesso a suscitare perplessità, è irrealistico aspettarsi che l'esame possa essere considerato appropriato.

La questione, comunque, è molto più complessa di quanto si possa immaginare: da una parte è forte la tentazione di derubricare l'atto di ribellione degli studenti come una furbata: chi ha rinunciato a sostenere il colloquio sapeva già che avrebbe comunque ottenuto il diploma grazie al punteggio ottenuto fino a quel momento quindi il suo gesto è stato puramente dimostrativo. Come se io proclamassi di voler fare la lotta ai negozi di alimentari dichiarando di non voler fare più la spesa, sapendo di avere in casa tutto il cibo necessario per sopravvivere.
Magari, le persone che ridicolizzano questa scelta sono le stesse che, in occasione della morte di Goffredo Fofi, hanno condiviso una delle sue frasi più emblematiche: "Quando trovo dei giovani bravi, il primo limite che cerco di smontare è il pensare di farcela da soli. Avrei anche quattro comandamenti: resistere, studiare, fare rete, rompere le scatole".
Se, però, rompono le scatole vanno subito rimessi a posto, altrimenti, come ha detto Gramellini sul "Corriere" poi non sono abituati a quello che succederà loro nel mondo del lavoro. 
Non credo che sia mai stato chiesto alla scuola di far abituare i ragazzi al mondo del lavoro: non credo sia questo il mio compito da educatore, quanto piuttosto quello - utopico quanto si vuole - di alimentare in loro il desiderio di sapere e la voglia di conoscere sempre di più. 
Sto sognando? Certo, ma trovo personalmente agghiacciante l'idea di doverli maltrattare perché un giorno saranno maltrattati dal docente universitario o dal datore di lavoro: non sarebbero studenti abituati, ma semplicemente studenti maltrattati due volte.

Per quanto possa sembrare sfrontato, l'atto di rifiutarsi di sostenere il colloquio - è innegabile - è comunque un atto di coraggio, coraggio che io, lo confesso senza problemi, alla loro età non avrei avuto e che non dubito che qualcuno dei miei pupilli avrebbe. Potremo dire, forse, di non aver fallito nel nostro compito se riusciremo a far sì che questo non avvenga, non perché lo avremo vietato ma perché avremo creato le condizioni perché ragazze e ragazzi non avvertano la necessità di farlo, o magari abbiano la capacità e la forza di argomentare e sostenere le proprie idee anche se questo non fa notizia.
L'atto di rifiutarsi di sostenere il colloquio, per quanto inutile, per quanto fatto - forse - per avere visibilità, non va sottovalutato: è un campanello d'allarme, è una richiesta di ascolto fatta - forse - nel contesto e nel modo sbagliato. La richiesta di porre attenzione a mettere al centro la persona e a non considerare la studentessa o lo studente un voto o un numero è sicuramente legittima ma, oggettivamente, richiede che ci sia un processo più lungo: è durante i 13 anni di scuola che deve avvenire tutto questo, non certamente nel momento dell'esame in cui - è un dato di fatto - quattro delle sette persone chiamate a giudicare vedono per la prima volta la persona che hanno di fronte.

L'ho detto altre volte e lo ribadisco perché ci credo profondamente: si può essere empatici anche senza essere molli, si possono usare i voti ed essere allo stesso tempo attenti alla valutazione della persona.
E no, non serve neppure minacciare di bocciare chi boicotta l'esame: o se ne cambia totalmente l'impianto oppure, visto che ora funziona come una raccolta punti del supermercato, non può essere bocciato chi ha raggiunto il numero necessario di punti per ottenere il diploma. A questo punto, ha più senso l'ironica proposta di Valentina Petri, la docente che c'è dietro la pagina "Portami il diario", di inserire un sistema di bonus e malus per la valutazione in stile Fantasanremo.

La soluzione non è facile e sicuramente non si può affrontare con proclami social.
I ragazzi rifiutano di sostenere l'esame, gli adulti si rifiutano di ascoltarli.
E da due rifiuti raramente nasce qualcosa di buono.

Fiorella Mannoia, Il peso del coraggio







06 luglio 2025

Aspetto

Aspettare.
Si pensa che questo verbo sia strettamente legato al tempo, e invece è legato ad altro.
Etimologicamente "aspettare" significa guardare intensamente e con attenzione nella direzione da cui ci aspettiamo che arrivi qualcosa o qualcuno.
Quando aspettiamo, guardiamo in una direzione nell'attesa - spasmodica o paziente - che arrivi ciò che attendiamo.
Talvolta ci sentiamo come Giovanni Drogo, il sottotenente protagonista del capolavoro di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, che spende la propria vita nella Fortezza Bastiani aspettando lo scontro con i Tartari che potrebbe dare un senso alla propria vita.
Altre volte ci sentiamo come Giacomo Leopardi che lascia spazio all'immaginazione e aspettando, ovvero, guardando - senza realmente vedere - oltre la siepe, naufraga dolcemente, fino ad annullarsi, nel mare dell'infinito.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Sono sul monte Tabor, accanto al poeta e mi concentro su ciò che non vedo.
Ciò che non vedo è ciò che non ho.
Non avere provoca, contestualmente, desiderio e sofferenza
Desiderio e sofferenza, quindi, sono intimamente connessi.

Aspettare, cioè continuare a guardare fissamente nella direzione da cui aspetto che arrivi ciò che potrebbe placarli, significa, però, che  - forse - ho fiducia nel fatto che prima o poi arriverà,
Potrei muovermi, andare nella direzione verso cui guardo, ma so che si tratta di un viaggio che richiede un equipaggiamento importante e quindi, prima di preparare i bagagli, studio con attenzione l'itinerario sulla mappa.
E aspetto.
Aspetto che passi questo lungo periodo di felicità coatta, generalizzata, esibita.
Che ferite - antiche e recenti - si rimarginino.
Aspetto di trovare un equilibrio e di riuscire a dare un senso al mondo.
Di dare un senso a me stesso nel mondo.
Di riuscire ad accettare che la felicità di qualcuno non può e non deve minare la felicità altrui.
Aspetto di capire che le persone non si identificano solo con le loro azioni.
Aspetto la maglia rotta nella rete.
Aspetto l'alba, cercando di godermi la notte.

Carmen Consoli, Guarda l'alba

Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - son...