29 giugno 2025

Camicia bianca

Il passo incerto. Il sorriso timido.
Entrano in una stanza calda, dove due ventilatori cercano inutilmente di dare un po' di sollievo, dove arrivano i rumori della strada, le urla dei bambini della scuola dell'infanzia vicina, il frinire delle cicale.
Solitamente indossano camicie bianche: è il loro modo - credo - per far capire che ci tengono a questo momento, che danno il giusto valore all'esame che stanno affrontando, il primo per molti di loro che nel 2020 hanno frequentato gli ultimi mesi della terza media dalla loro cameretta.
Sono i ragazzi che stanno affrontando l'Esame di Stato.
E poi c'è la commissione.
Sette sconosciuti, abituati a lavorare singolarmente, che per qualche settimana si trovano costretti a condividere decisioni, interrogazioni e valutazioni. Ogni tanto - soprattutto nei primi giorni - si prova la stessa sensazione che si percepisce quando si entra in ascensore: sorrisi imbarazzati, silenzi da riempire, frasi di circostanza. Poi, quando ci si abitua alla presenza degli altri, si è ormai arrivati al piano. E quindi sui social proliferano foto di pacchi con imbarazzanti sigilli di ceralacca e di gruppi di persone stanche e sorridenti che si sono ripromesse di vedersi per andare a mangiare una pizza. Cosa che nella maggior parte delle volte non succede.

La firma che ne attesta la presenza, uno sguardo alla LIM su cui c'è il materiale da cui partire per l'orale e si parte. 
Mentre raccoglie le idee, guardo con curiosità l'aula in cui troneggia la lavagna: l'ardesia e il gesso sono scomparsi, ma l'elettronica contrasta con le cartine geografiche appese ai muri da chissà quanto, con qualche crepa, con gli infissi di legno, imponenti e un po' scrostati. C'è il silenzio che precede ogni momento importante, interrotto dal rumore dei ventagli, dai maestra maestraaa che arrivano da fuori e dalla sirena di un'ambulanza in lontananza, che ci avvisano che la vita fuori continua anche se siamo in questa bolla.
Rifletto sul fatto che li chiamiamo candidati, come coloro che nell'antica Roma indossavano vesti bianche, candide, appunto, per raccogliere i voti in occasione delle elezioni. Sorrido pensando al fatto che, tolte le elezioni, tutto è rimasto uguale.

Con la voce bassa e un po' insicura inizia a parlare di ciò che sa. 
Si muove - talvolta in maniera impacciata, talvolta no - tra argomenti che lo hanno fatto annoiare, talvolta piangere, raramente entusiasmare: ha passato ore sui libri, chiedendosi quando gli sarà ancora utile nella vita ricordarsi della vecchia imbellettata di Pirandello, delle derivate, di Dulce et decorum est o dei simboli che sono presenti in Guernica.
Chissà quante volte ha pensato che la scuola no, non dovrebbe trattare solo di eventi passati, ma anche e soprattutto di quello che sta succedendo: perché è in atto il genocidio in Palestina? Perché tante donne vengono uccise? Perché il mondo è schiavo di Trump? Come fare a risolvere il riscaldamento globale che è un problema soprattutto per chi non ha l'agio di avere l'aria condizionata a casa e magari lavora sotto il sole per ore?
Non è il momento di confrontarsi su questo - anche se sarebbe sempre utile ricordare che il compito, utopico ma non irrealizzabile, della scuola è dare strumenti universali per interpretare la realtà - e lo ammiro mentre passa da un argomento all'altro, mentre cita nomi, date e nozioni che forse un tempo avevo anche io ma che poi ho rimosso.
Vedo una giovane donna o un giovane uomo che ha davanti a sé ancora tutte le possibilità, può scegliere se percorrere strade note o se tracciare sentieri nuovi: vorrei solo dire di non aver paura di sbagliare, che si è sempre in tempo per tornare indietro, ma mi limito a stringergli la mano perché i tempi sono stretti e bisogna andare altro.

E poi capita che di incontrarli nuovamente alla fine della mattinata quando, dismesso l'abito da esame, hanno indossato nuovamente i loro vestiti: ne percepisco il senso di leggerezza e di liberazione, ne vedo il sorriso e viene da sorridere anche a me.

 Jackson Browne, The road

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