27 aprile 2025

È stato un caso

"È stato un caso".
Quante volte abbiamo pronunciato questa frase?
Lo facciamo per deresponsabilizzarci: non è colpa mia, è stato il caso.
Per dare una spiegazione a eventi, incontri, situazioni - piacevoli o spiacevoli che siano - a cui sentiamo di dover dare una spiegazione che non riusciamo a trovare.
Lo facciamo per spiegare ciò che va al di là del nostro libero arbitrio.
Che poi, a pensarci bene, mi sto convincendo che noi, di libero arbitrio, ne abbiamo davvero pochino: non più di quanto ne avesse la Gertrude manzoniana il cui padre, dandole l'illusione di avere una possibilità di scelta, le lasciava scegliere il giorno in cui diventare monaca per sempre, senza interrogarsi sulle sue reali volontà.
Come lei, ci illudiamo di scegliere la direzione da dare alla nostra vita, ma il nostro potere di intervento è su cose minuscole.
L'etimologia - in questo - sembrerebbe darmi ragione.
"Caso", esattamente come "fato", sono due participi perfetti e ciò che è perfetto è concluso ed immodificabile.
Fato è ciò che è stato detto, stabilito; caso è ciò che è caduto dall'alto in basso.
E quando una cosa cade, certo, possiamo raccoglierla ma ormai è caduta.

Penso, però, alle persone che incrociamo per caso nel nostro cammino, ai libri che leggiamo e che non erano nella nostra lista, alle esperienze che viviamo e che ci toccano nel profondo.
Ogni volta che impieghiamo il tempo nel fare qualcosa.
Ogni volta che i nostri occhi restano impigliati negli occhi di qualcun altro.
Ogni volta che ascoltiamo, parliamo, andiamo.
Ogni volta stiamo imboccando una strada e, spesso inconsapevolmente, stiamo escludendo tutte le altre.
Sarebbero state più fruttuose? Più facili? Più dolorose?
Non lo sapremo mai. Per quanto possiamo chiedercelo, per quanto possiamo realisticamente immaginarci gli infiniti altri futuri possibili non potremo mai avere certezza di come sarebbero andate le cose se.

Ero perso in questi pensieri, quando sono andato a cercare conforto tra i libri e sono andato da uno dei miei punti di riferimento, Wislawa Szymborska, che sul caso scrive queste parole:

Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’animo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì? Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.

Abbiamo sempre bisogno di darci una spiegazione razionale.
L'unico atteggiamento razionale è capire che questa spiegazione non sempre c'è.
Rileggo gli ultimi due versi della poesia, chiudo gli occhi e me li godo. In silenzio.

Franco126, Futuri possibili

13 aprile 2025

Strumenti di distruzione di massa: il ricevimento genitori.

L'ansia da prenotazione: "Sei riuscito a trovare posto? Guarda che se non fai presto non trovi più disponibilità"
L'impossibilità di trovare parcheggio.
Sapere dove andare leggendo dei tabelloni all'ingresso.
Vagare per corridoi affollati fino a trovare la porta giusta.
Attendere per un tempo pressoché infinito che arrivi il proprio momento.
No, non sto parlando di una partenza in aereo per le prossime vacanze ma di un momento che da docente temo quasi quanto un "poi passa nel mio ufficio?" della mia dirigente.
Il ricevimento dei genitori, che 'ntender no lo può chi no lo prova.

Guardo sconsolato le mie colleghe e i miei colleghi mentre saliamo insieme per le scale che ci portano alle aule a noi riservate: abbiamo lo stesso entusiasmo degli studenti che devono affrontare un compito di matematica alla prima ora del lunedì. E hanno passato la domenica a piangere perché non capiscono niente di numeri e di lettere messe a caso (ogni riferimento a fatti o persone - me, nello specifico - è puramente intenzionale)
Ci concediamo l'ultimo momento di disperazione prima di sfoggiare i nostri sorrisi migliori e tirare fuori il nostro campionario, fatto di:
- è intelligente. ma non si applica;
stringiamo i denti perché mancano ancora un po' di valutazioni;
- d'altra parte è così (quando vuoi chiudere la conversazione perché senti che fuori dalla porta sta iniziando una contestazione per il colloquio che si allunga troppo e intravedi genitori che stanno per indossare un passamontagna nero da black bloc con l'intenzione di spaccare le vetrine in cui ci sono esperimenti di scienze che credo nessuno abbia mai toccato.

Un po' di esperienza sul campo mi ha insegnato a riconoscere le tipologie di genitori più frequenti, che si possono categorizzare in questo modo:

- a casa la sapeva: un classico, come Via col vento o il trenino la notte di Capodanno. Il genitore è pronto a giurare sul fatto che lui stesso con le sue orecchie ha sentito la lezione al figlio e - a suo parere - era preparatissimo. Inutile spiegare che magari se fai tutt'altro lavoro non hai le competenze per valutare se il tuo pargolo è pronto o no per l'interrogazione e non sei diverso dall'umarell che guarda il cantiere affermando con una certa sicumera che lui il lavoro lo avrebbe fatto meglio. C'è una variante interessante che è mio figlio passa tutto il giorno in camera a studiare. Soprattutto quando si tratta di adolescenti in pieno tripudio ormonale, mi è necessario tutto il tatto del caso per spiegare che no, signora, se la porta è chiusa forse il bambino non sta studiando ma sta cercando nuovi modi per far esultare il proprio corpo. 

- premio Montessori: tratto da una storia vera/1.
io: "eh, signora, suo figlio ogni tanto avrebbe bisogno di una scossa". 
lei: "Lo picchi pure"
io: "Ma non posso"
lei: "Non si preoccupi, non la denuncio" 

- fammi i complimenti: lo riconosci subito. Si siede di fronte a te con un sorriso di plastica, solitamente sul bordo della sedia per permettere alla ruota del pavone di aprirsi completamente e mostrarsi in tutto il suo splendore. La cosa più imbarazzante è che ti guarda in silenzio, attendendo che tu inizi a parlare bene della figlia o del figlio e potresti andare avanti all'infinito: lui ha lo sguardo placido e la mancanza di fretta di chi sta facendo il pieno di benzina e aspetta di sentire il piccolo clic che ti avvisa che il serbatoio è pieno. Quando ormai sei allo stremo e hai già detto che il pargolo parla bene, scrive bene, studia, è corretto con i compagni, ha doti di santone, di guaritore e probabilmente riuscirà a riportare la Gioconda in Italia, il genitore, appagato da ciò che ha sentito, è pronto a librarsi verso gli altri docenti e a gonfiare ancora un po' il proprio ego.

- chiamami Maria: tratto da una storia vera/2
Era il 2005. Ero un giovane prof di belle speranze ed insegnavo in una scuola che si trovava in un paese sul mare (sospiro).
io: "Buonasera signora! Allora, cosa dire di sua figlia? È molto brava..."
lei (con fare sottilmente ammiccante): "Macché signora! Chiamami Maria"
Credo di aver sperimentato sul mio viso tutte le cinquanta sfumature di rosso.
No, alla fine non l'ho chiamata Maria.
Ovviamente, questo non succede più: al massimo ora dicono "Chiamo i carabinieri".

- avrei bisogno di uno psicologo (ma tu sei gratis)
io: "Allora, signora. Parliamo di suo figlio"
genitore: "Ah, non sa che situazione c'è in casa". E parte una disamina accuratissima - a cui per essere completa manca solo l'esposizione dell'albero genealogico -  sui parenti fino al quinto grado per poi passare a una descrizione delle dinamiche familiari, dei rapporti tra genitori e figli, tra genitore e genitore e anche tra genitore (solitamente l'altro) e amante.
Dopo aver dipinto una situazione rispetto alla quale la famiglia protagonista di Shameless è perfettamente funzionale, arriva la domanda: "Ma secondo lei il bambino va male in latino perché risente di tutto questo?"
No, signora: il bambino va male in latino perché non studia.

- garante della privacy: sono, solitamente, madri che ti parlano del ciclo della figlia o dello sviluppo ancora non avvenuto del figlio, che ti raccontano ogni episodio della loro vita, che tu avresti voluto continuare ad ignorare per vivere sereno. Quando il giorno dopo li vedi in classe, non hai il coraggio di guardarli in faccia per paura di scoppiare a ridere perché conosci alcuni segreti che pensavano sarebbero morti con loro nella tomba.

Alla fine delle ore di ricevimento, camminiamo come zombie per i corridoi, privati delle nostre energie; ci guardiamo senza vederci, aspettando solo di aprire la macchina, richiudere la portiera e cercare di elaborare questa esperienza antropologica estrema, chiedendoci se ciò che abbiamo vissuto sia stata realtà o fantasia.


  

06 aprile 2025

Elogio dell'imprecisione

Finalmente riesco a capire quale impatto possa aver avuto l'invenzione del fuoco sull'uomo preistorico.
Me li immagino, le donne e gli uomini dei tempi, che con il loro linguaggio primordiale si comunicano le esperienze vissute, si confrontano sui pericoli e iniziano a interrogarsi sulla grande novità che sentono sconvolgerà le proprie vite.
Come potremo gestire il fuoco? Ci aiuterà o ci danneggerà? E se qualcuno ne usasse la forza distruttrice contro di noi, come faremo a difenderci?
Ho sostituito alla parola "fuoco" la parola "intelligenza artificiale" ed ho avuto l'illuminazione.
La svolta è, indubbiamente, epocale e noi - nonostante i corsi di formazione, le rassicurazioni, l'ostentata indifferenza da parte di alcuni e la paura incontrollabile da parte di altri - non siamo pronti perché, sostanzialmente, come gli antichi credevano che il fuoco fosse una prerogativa degli dei e che un eroe - Prometeo - fosse andato a rubarlo loro per donarlo agli uomini, allo stesso modo crediamo che dietro l'IA ci sia qualcosa di divino a cui è impossibile opporsi.
Ma un rimedio c'è, ed è l'imprecisione.

Preciso, etimologicamente, vuol dire privato di tutto ciò che è superfluo.
Preciso è, quindi, qualcosa dai confini netti, dai margini invalicabili che distinguono nettamente ciò che è da ciò che non è.
Il chimico cerca spesso la precisione perché cambiare le proporzioni tra gli elementi che maneggia può significare far fallire un esperimento.
Tutti noi, io per primo, cerchiamo spesso la precisione perché probabilmente ricomponiamo - o cerchiamo di ricomporre -  i nostri profondi conflitti interiori curando maniacalmente i particolari esteriori: compensiamo con l'ordine esterno il disordine interno.

Ma l'imprecisione è ciò che ci rende umani: ciò che è troppo preciso nasconde un artificio, un intervento ragionato. Definire tutto ciò che facciamo e ciò che siamo in modo netto è qualcosa che costa fatica, che spesso non ripaga e che richiederebbe - volendo essere onesti - una continua revisione e ridefinizione.
Io sono questo
No, tu oggi sei questo perché qui ti hanno portato le esperienze che hai vissuto, gli incontri che hai fatto, le occasioni che hai sprecato, le strade che hai scelto di percorrere quando ti sei trovato di fronte ad un bivio.
Domani cosa sarai? 
Non si può dire con certezza perché il futuro pone sfide talvolta inimmaginabili in cui sei costretto a rivederti, a ripensarti, a ridefinirti anche in maniera totalmente inaspettata.

La precisione nella definizione di sé è, quindi, una scelta sbagliata da un punto di vista evolutivo: se ci specializziamo, ovvero se ci diamo dei confini precisi, siamo destinati a soccombere perché non in grado di adattarci ai cambiamenti. Come diceva Italo Svevo nel suo saggio L'uomo e la teoria darwiniana solo chi non è ben definito ed è aperto al cambiamento, l'abbozzo di uomo, è destinato a sopravvivere.

E in ambito scolastico?

Quando una studentessa o uno studente mi presenta un lavoro senza sbavature mi insospettisco; quando li vedo ossessionati dalla pulizia del foglio che non deve avere cancellature o pieghe mi pongo una domanda: è davvero questo ciò che insegna - o deve insegnare - la scuola?
Mi vengono in mente queste parole di Italo Calvino:

«Il diavolo oggi è l'approssimativo. Per diavolo intendo la negatività senza riscatto, da cui non può venir nessun bene. Nei discorsi approssimativi, nelle genericità, nell'imprecisione di pensiero e di linguaggio, specie se accompagnati da sicumera e petulanza, possiamo riconoscere il diavolo come nemico della chiarezza, sia interiore sia nei rapporti con gli altri, il diavolo come personificazione della mistificazione e dell'automistificazione. [...] Riuscire a definire i propri dubbi è molto più concreto che qualsiasi affermazione perentoria le cui fondamenta si basano sul vuoto, sulla ripetizione di parole il cui significato si è logorato per il troppo uso.»

Essere imprecisi, però, non vuol dire per forza essere approssimativi.

Chiaramente, non si può e non si deve dare spazio all'idea - già diffusa a tutti i livelli della società - che, ad esempio, le parole non hanno un peso e che, quindi, usarne una o un'altra è indifferente; non va normalizzata la faciloneria con cui vengono spesso liquidate le questioni importanti; non va difesa l'idea per cui è sufficiente dare l'idea agli altri di essere in possesso di conoscenze per essere considerato uno che sa.

La precisione e la chiarezza di pensiero sono fondamentali; l'approssimazione è, invece, cialtroneria, è mostrarsi in grado di saper fare qualcosa che non si sa fare. È copiare gli esercizi dal compagno di banco per mostrare di aver fatto i compiti a casa, è cercare di gettare fumo negli occhi altrui, confondere le acque per ritrovarsi, però, con un pugno di mosche.
L'imprecisione di cui parlo è qualcosa si può profondo: è l'ammissione dei propri limiti, è la volontà di non cercare la perfezione a tutti i costi, è la rinuncia all'ossessione per la forma.
È qualcosa, come dicevo, di profondamente umano e questo non può essere replicato da nessuna intelligenza artificiale che, invece, com'è giusto che sia, punta alla precisione estrema, che umana non è.

E allora preserviamola questa imprecisione, accettiamo il fatto che i bordi non sono sempre netti e che ciò che divide il sé e l'altro da sé, il giusto e lo sbagliato, il positivo e il negativo è un confine che può e deve essere spesso valicato. È lo stesso Calvino ad insegnarci - nel suo romanzo Il visconte dimezzato - che un uomo è completo solo quando conserva in sé il lato buono e il lato cattivo e che la loro netta separazione, causata da un colpo di cannone che colpisce il visconte Medardo, non porta l'uomo da nessuna parte.

Nella sua raccolta Nature e venature, Valerio Magrelli inserisce questi versi

Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto, la sentinella
che non sa arrestare il battito
breve delle palpebre,
mi stanno a cuore
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno,
il gioco delle parti,
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.

E lasciamo che quel qualcosa balli.

Calcutta, Tutti

Lo sbilico

Sicuramente l'ho già scritto in queste pagine: ci illudiamo di scegliere i libri da leggere, ma - tranne quando ci vengono imposti - son...